venerdì 25 agosto 2017

La Sindrome di Istanbul

Il campionato turco inghiotte ogni anno tra le sue fauci decine di calciatori che vi si avventurano alla ricerca di una seconda chance. Quella per la Turchia è davvero una strada senza ritorno? Genesi e sviluppo di un fenomeno epidemiologico.


Non è riuscuta l'impresa a cui era chiamato martedì scorso Wesley Sneijder: salvare il Nizza dalla furia del Napoli e portare la sua nuova squadra ai gironi di Champions. Il compito era arduo ma è già un indizio sul probabile futuro in Francia dell'olandese dopo il suo ritorno dall'esilio turco al quale era stato convinto la bellezza di quattro anni fa dal suo ex allenatore e confidente José Mourinho. È proprio Sneijder infatti che mi ha riportato alla mente una riflessione che covavo da tempo e che qui ho voluto mettere alla prova dei fatti.

Dalla Turchia non si torna, questo è il succo del discorso. Non che non ci sia stato in passato chi abbia provato a raggiungere a nuoto le coste bulgare e risalire il Danubio fino ai confini dei maggiori campionati europei ma... Felipe Melo, Samuel Eto'o, Reto Ziegler, Milos Krasic, Dani Guïza... vi bastano? Sì, dalla Turchia si può tornare, basta un volo Turkish di poco più di due ore, ma non si può fingere che le cose siano le stesse di quando si è partiti.

Eziologia
Ma cos'è questo buco nero che si spalanca ai confini dell'Europa e che inghiotte il talento e l'energia vitale di quei calciatori che osano varcare la soglia della Sublime Porta? La Türkiye 1. Süper Futbol Ligi, comunemente chiamata Süper Lig, è dal 2001 il massimo campionato di Turchia, la nuova lega che all'inizio del millennio, in un Paese in piena recessione economica e alle prese con un'instabilità politica da cui prenderà forma il neo-sultanato del presidente Erdogan, intede cavalcare l'onda del boom che il movimento calcistico nazionale sta vivendo in quegli anni. La Coppa UEFA conquistata dal Galatasaray nel 2000 e le buone prestazioni mostrate qualche mese più tardi dalla Nazionale agli Europei accendono i riflettori su un calcio rimasto quasi sempre ai margini dell'Europa, confinato decisamente al di là dello Stretto dei Dardanelli. Dal 1959, anno della fondazione ufficiale del primo campionato professionistico, agli anni Novanta si può dire che la forza di attrazione esercitata dalla Turchia verso l'esterno non sia mai andata oltre i Balcani, da dove, escluso qualche avventuriero scandinavo, arrivava la gran parte dei giocatori di importazione. Alla fine degli anni Ottanta, in un contesto di ripresa economica e con il Paese sulla via di una tribolata democratizzazione, anche il calcio comincia a concedersi i suoi lussi come il tris di brasiliani reduci di Spagna 82 formato da Eder, Serginho e Carlos che il Malatyaspor decide di regalarsi nel 1988. Nello stesso anno arriva al Fenerbahce nientemeno che lo storico portiere della Germania Toni Schumacher, seguito poco dopo dal suo omologo belga Jean-Marie Pfaff, che a 36 anni suonati cede alla corte del Trabzonspor e chiude la carriera sulle spiagge del Mar Nero. Contemporaneamente il Besiktas intrattiene strane relazioni oltremanica che portano vari giocatori britannici sulla sponda bianconera di Istanbul, tra cui un giovanissimo Les Ferdinand in prestito dal QPR.
 
Carlos, Serginho e Toni Schumacher in Malatyaspor-Fenerbahce.

È la timida apertura di un movimento lontano anni luce dal livello medio dei maggiori campionati europei ma che già all'epoca fa registrare i primi exploit. Risale infatti al 1989 la semifinale di Coppa dei Campioni che il Galatasaray raggiunge grazie agli investimenti dell'influente presidente Ali Tanryar, mancato proprio quest'anno all'età di 103 anni e già Ministro dell'interno, fondatore dell'allora partito di governo e azionista di lungo corso del club. Il calcio turco esce nuovamente dall'anonimato a metà anni Novanta quando il Torino acquista il giovane attaccante Hakan Sukur, trent'anni dopo il laziale Can Bartu, ultimo giocatore turco a militare in Serie A alla fine degli anni Sessanta. È questo il periodo in cui cominciano a vedersi i primi acquisti miliardari da parte dei principali club di Istanbul. Nel 1996 il Galatasaray versa nelle casse del Barcellona quasi 4 milioni di euro, a occhio e croce 7 miliardi di lire, per Gheorghe Hagi, che all'epoca ha 31 anni e lascerà la Turchia solo da ex giocatore. Il nuovo corso del presidente Farouk Süren, sotto la cui presidenza il Galatasaray vivrà il periodo più vincente della sua storia, si distingue però anche per le spese ingenti che la dirigenza riserva non solo a campioni sul viale del tramonto ma anche per giovani seguiti da squadre provenienti da campionati più quotati. È il caso dei poco più che ventenni Adrian Ilie e Iulian Filipescu, per i quali Süren paga alla Steaua Bucarest 3 milioni di euro. A completare quella campagna acquisti si aggiungono anche il nazionale svizzero Adrian Knup e il giovane Ümit Davala, il cui fantasma farà visita anche a Milan e Inter. Se il Galatasaray cambia passo, i rivali del Fenerbahce non stanno a guardare... e giù 7 miliardi all'Eintracht Francoforte per il giocoliere Jay-Jay Okocha. Siamo nell'estate del 1996, quella delle Olimpiadi di Atlanta e dell'Europa che va a caccia dei medagliati nigeriani, naturale quindi che il Besiktas risponda portando in Turchia Daniel Amokachi, giocatore tra i più in vista della squadra campione olimpica e con già qualche anno di Premier League alle spalle. 

Derby nigeriano tra Amokachi e Okechukwu in Besiktas-Fenerbahce.
 
I tempi stanno cambiando, le bandiere si ammainano e gli investimenti lievitano. Lo sa bene il presidente del Fenerbahce Ali Şen che dopo aver scaricato due idoli della tifoseria come Aykut Kocaman (non a caso oggi allenatore dei gialloblu) e Ogüz Cetin, fa segnare un nuovo record per il calciomercato turco sfiorando i 20 miliardi per prelevare dal Bursaspor il bosniaco Elvir Baljic, uno che un paio d'anni più tardi vedremo con la maglia del Real Madrid. Il Galatasaray nel frattempo rivende Ilie al Valencia e reinveste la plusvalenza nell'esperto Gica Popescu.

Come detto, il 2000 è un anno particolare per il calcio turco ed è in quell'estate di diciassette anni fa che anche il mercato fa registrare il salto di qualità. Il Galatasaray è la prima squadra turca ad aver conseguito un titolo europeo e la buona prova offerta dalla Nazionale ad Euro 2000 non fa che moltiplicare il valore dei suoi giocatori. Il presidente Süren sacrifica il pezzo da novanta Hakan Sukur, su cui l'Inter mette le mani già a metà luglio, e trattiene gli altri gioielli Emre, Fatih e Ümit. Lo sforzo economico maggiore però sono i 17 milioni di euro, più di 30 miliardi di vecchie lire, che la società sborsa per portare in Turchia Mario Jardel. Noi ce lo ricordiamo triste e appesantito con la maglia dell'Ancona ma nei primi anni Duemila Jardel è un giocatore integro, non ha ancora 27 anni, è nel giro della Nazionale brasiliana e soprattutto è di gran lunga il maggior realizzatore in Europa, con una media di trenta goal a stagione e una Scarpa d'Oro all'attivo. È un acquisto che dall'esterno contribuisce a cambiare la percezione del campionato turco e amplifica l'appeal di un torneo dove anche i club inglesi, spagnoli e italiani iniziano a fare la spesa. Se l'Aston Villa spende quasi 20 miliardi per il difensore del Fenerbache Alpay e un giocatore nel pieno della forma come Jardel finisce al Galatasaray, allora oltre il Bosforo deve esserci qualcosa di più che piatti di köfte e caffè.

Jardel ha appena castigato il Real Madrid.

Per capire che Jardel sia stato un buon investimento e che la Turchia sia ormai pronta ad entrare in Europa, almeno quella calcistica, non bisogna attendere più di un mese. Il 25 agosto 2000, a Montecarlo, il Galatasaray sbaraglia il Real Madrid nella Supercoppa Europea grazie a una doppietta del brasiliano. Qualche mese più tardi è ancora il Real che si mette tra il Galatasaray e la storia, questa volta riuscendo a sbarrare la strada ai giallorossi che, dopo la vittoria per 3-2 dell'andata, avevano la semifinale di Champions a portata di mano.

Jardel torna in Portogallo, la disapora turca partita alla conquista dell'Europa dopo il terzo posto ai Mondiali 2002 se ne torna quasi tutta a casa con la coda tra le gambe e per qualche tempo nella neonata Süper Lig non si sentono nomi altisonanti se non quello del Burrito Ortega, per pochi mesi trequartista designato del Fenerbache. Il campionato turco inizia così la propria metamorfosi da esotica residenza per anziani in cerca del buen retiro a torneo di secondo piano ma con vista sull'Europa che conta. Non sono più gli USA, il Qatar o la Cina, dove tralaltro la pacchia sembra stia per finire, ma rappresenta sempre più spesso un valido compromesso tra soldi e carriera. Una crescita media superiore al 6% annuo trascina il Paese fino al termine di un decennio nel quale le disponibilità economiche e la relativa competitività dei club di Istanbul, ma non solo, spesso e volentieri convincono giocatori non più sulla cresta dell'onda ma ancora interessati a una scelta tecnica oltre che al portafoglio. La Turchia diventa la terra promessa del possibile riscatto, il luogo dove riprendere in mano una carriera senza perdere di vista l'Europa, la meta di un viaggio della speranza che quasi sempre però si rivela essere senza ritorno.

Alcuni case studies
Sono passati ormai dodici anni da quando un ancora giovane Nicolas Anelka fugge dal grigio inverno di Manchester per ritrovare smalto nel calore del Şükrü Saraçoglu di Istanbul, la casa del Fenerbache, e rilanciarsi in Premier, prima al Bolton e poi al Chelsea, dove vincerà tutto. Ma quanti possono dire di aver fatto altrettanto, quanti sono riusciti a non farsi risucchiare dalla generale mediocrità della Süper Lig o hanno preferito gettare la spugna e tornarsene a casa, quanti invece sono rimasti stregati dalle magiche atmosfere d'oriente e hanno deciso di stabilirsi in Turchia definitivamente, insomma quanti sono i supersititi della sindrome turca? 

Per dare una parvenza di scientificità al mio ragionamento ho deciso di mettere giù una statistica molto grezza ma che possa dare un'idea di massima dell'effetiva ragion d'essere di questo delirio che mi sono preso la briga di spiegare. Basandomi sui dati di transfermarkt.com ho provato a verificare quali giocatori stranieri giunti in Turchia negli ultimi anni siano poi riusciti effettivamente a rilanciare la propria carriera. Il campione selezionato prende in considerazione una trentina di nomi più o meno celebri che coprono un arco temporale di dodici anni a partire dalla stagione 2000/2001, quella del fatidico arrivo di Jardel, alla 2012/2013, quando il Fenerbahce decise di acquistare colui che avrebbe dovuto essere il salvatore della Juve pre-Conte Milos Krasic. Per quanto arbitari, i parametri scelti per verificare il presunto “successo” cercano di tenere in considerazione variabili abbastanza rappresentative come l'eventuale ritorno nei principali campionati europei (Spagna, Inghilterra, Italia, Germania e Francia) nelle successive tre stagioni, l'eventuale ingaggio da parte di squadre di rilievo, l'effettivo coinvolgimento nelle nuove squadre di appartenenza e le fluttuazioni della quotazione di mercato dal momento dell'arrivo in Turchia a quello della partenza. Il campione esclude per ovvi motivi le ultime stagioni dato che molti giocatori arrivati recentemente sono ancora impegnati in Süper Lig o hanno cambiato aria da meno di tre anni (tranne Felipe Melo, le sue due stagioni all'Inter le ho volute inserire lo stesso... ghghgh). Infine, giusto per sfoltire il gruppo da chi ragionevolmente è arrivato nella penisola anatolica pensando più alla pensione che a una seconda possibilità, ho escluso i giocatori che al momento dell'arrivo in Turchia avevano più di trent'anni, quindi Roberto Carlos: sei fuori!


Suddividendo il grafico in quattro parti e tenendo come riferimento il punto che taglia a metà l'asse delle ascisse, in alto a destra troviamo i pochi che possano dirsi scampati ai nefasti sintomi della misteriosa sindrome... eppure. Eppure ci sono dei distinguo da fare. Se quello di Anelka è probabilmente l'unico vero caso di guarigione completa di un caso conclamato, lo stesso discorso non vale per Ribery di cui, confesso, ero completamente all'oscuro dei suoi sei mesi passati in Turchia. Il francese è quello che avrà la carriera più brillante tra i presenti, tuttavia non mi sento di diagnosticargli una reale forma di sindrome di Istanbul dato che arrivò giovanissimo e semisconosciuto prima di rivelarsi a Marsiglia e affermarsi a Monaco come uno dei migliori esterni del nuovo millennio. Chi può dirsi guarito completamente o quasi è anche John Carew, aiutato anche da una rivalutazione di mercato notevole se paragonata a quella degli altri giocatori analizzati. Soprattutto a Lione infatti il norvegese riuscirà a riproporsi ad alti livelli vincendo campionati e ben figurando in Champions League prima di accasarsi all'Aston Villa per un finale di carriera che lascerà un po' di amaro in bocca. Altro caso controverso è quello di Emiliano Insua che, favorito anche dalla giovane età, ha lasciato il Galatasaray con un valore di mercato superiore a quello del suo arrivo, non riuscendo tuttavia a mantenere le molte promesse che una decina di anni fa convinsero il Liverpool ad acquistarlo non ancora maggiorenne dal Boca.

Posando lo sguardo poco più in basso invece il quadro è sconfortante con decine di giocatori che hanno visto il proprio cartellino svalutarsi anno dopo anno mentre coloro che hanno contenuto la perdita partivano da un valore già ridotto al minimo, come Abel Xavier che nonostante tutto, nel suo viaggio di ritorno dalla Turchia, riuscì a strappare, non si sa come, un contratto alla Roma. Il panorama tuttavia appare meno fosco tenendo d'occhio la performance, con diversi giocatori che pur non facendo mai il botto sono riusciti a ricostruirsi una carriera di tutto rispetto, magari proprio in Turchia. È il caso di Quaresma, capriccio di Mourinho salutato tra le pernacchie dei tifosi interisiti che ancora si sognano la sua trivela, ma che tra Porto e Besiktas è riuscito a ritrovarsi, a riconquistare la Nazionale e pure a vincerci un Europeo. Una parabola simile a quella di Alex, che dopo la bocciatura senza appello ricevuta a Parma trova nel Fenerbahce una nuova famiglia che nei suoi otto anni di onorata militanza lo elegge suo Comandante, oltre a conservarne maglia e scarpe in un mueso. Altra storia di parziale successo è quella di Lorik Cana che con il Galatasaray è riuscito ad attirare le attenzioni della Lazio diventandone un elemento importante prima di guidare l'Albania agli ultimi Europei. Assoluzione anche per il rumeno Moldovan, che dopo due anni passati al Fenerbache sbarca in Francia, dove si aspetta tutto tranne che di vincere il campionato al suo primo anno con il Nantes, oppure per Elano e Ortega, che pur lasciando l'Europa con qualche rimpianto, una volta tornati a casa hanno avuto un finale di carriera dignitoso, nonostante una pericolosa caduta nell'alcol dell'argentino. Ci sono poi figure mitologiche come il trecciato Kiki Musampa, che i più nostalgici ricorderanno ai tempi dell'Ajax o il russo Beschastnykh, meteora ai tempi della Liga su TMC con il Santander, che dopo i trascorsi in Süper Lig hanno fatto perdere le loro tracce, dando adito alle voci che li vogliono fuggiaschi in qualche sperduta grotta della Cappadocia.

Alex e Anelka ai tempi del Fenerbahce.

La Turchia però non è solo un purgatorio di transfughi in attesa di una seconda possibilità. Stando al coefficiente UEFA è pur sempre il decimo campionato d'Europa, porta due squadre in Champions ogni anno e dispensa lauti stipendi da parte di presidenti generosi come lo yuppie Göksel Gümüşdag, delfino di Erdogan e possibile futuro sindaco di Istanbul, oltre che patron della squadra del momento, quell'Istanbul Basaksehir che in pochi anni, sotto l'ala protettrice del neo-sultano, ha saputo farsi strada dalle serie inferiori alla Champions League, o perlomeno ai preliminari.


Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas uniti durante le proteste a Gezi Park.

Ci sono volte però in cui non sono i soldi, o almeno non solo quelli, a fare la differenza. Il calore del tifo turco è ampiamente riconosciuto e se c'è un Paese nel quale la passione per il calcio si vede a occhio nudo, per le strade, nella quotidianità delle persone, questo è senz'altro la Turchia. Ricordo ancora con stupore il clima frizzante che si respirava tra i tifosi del Besiktas nell'ormai lontana estate del 2010. Volti sorridenti, ammiccanti, anche di prima mattina. Qualche battuta con il fornaio e il negoziante sotto casa. Non c'è imbarazzo, dopotutto cosa c'è di male a indossare sul luogo di lavoro la maglia bianconera delle aquile? Le parole si inseguono veloci, incomprensibili al turista che ne coglie solo l'allegria, un'allegria che diventa intelligibile quando l'orecchio capta qualcosa di familiare: «Guti», un suono facilmente confondibile con una delle tante “ü” e consonanti dure presenti nella lingua turca, ma che non può essere un caso, non quell'estate. Quella infatti è l'estate di Guti che arriva dal Real Madrid, di Quaresma che palleggia al vecchio Stadio Inönü e della città che diventa un arcobaleno di maglie: giallorosse, gialloblu, bianconere, mentre il nome di quel vecchio calciatore turco è il tuo lasciapassare per una bibita gratis al chiosco. Grazie Sergen Yalcin.

Mi dicono ci fosse già Quaresma ad allenarsi quel pomeriggio.

Ditemi poi in quale altro luogo della Terra Nordin Amrabat, mica Van Persie, avrebbe potuto sperare in un'accoglienza simile? Dov'è che l'arrivo di Gary Medel potrebbe venire celebrato con una diretta TV e un tifo da stadio già all'aeroporto? Quale altro Paese potrebbe ricompensare i due anni passati al Besiktas da Pascal Nouma, ex punta francese, di professione “nuovo Weah” ai tempi del PSG, con un ruolo nel capolavoro Dünyayi Kurtaran Adam'in Oglu, più noto con il titolo di Turks in Space? Insomma, se lo stesso Nouma, intervistato dal quotidiano nazionale Hürryet, dichiara di sentirsi un turco a casa propria, un motivo ci deve essere.

Etichette: , , , , , , , ,

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page