sabato 3 giugno 2017

La lettera di Totti

Un po' di considerazioni e vaneggiamenti sullo spettacolo andato in scena domenica scorsa all'Olimpico. Ecco come Francesco Totti ci ha messo ancora una volta di fronte al passare del tempo.


Maledetto tempo
A un certo punto della vita si diventa grandi [...] maledetto tempo. [...]
Oggi questo tempo è venuto a bussare sulla mia spalla dicendomi: dobbiamo crescere, da domani sarai grande.

Il carrozzone nazional-popolare si è consumato come previsto: un week-end di trepidazione in attesa di quello che da almeno un paio d'anni nessuno osava immaginare ma che tutti sapevano sarebbe successo, una liturgia coscientemente programmata in favore di camera, il video da giorni in "tendenze" su Youtube. Abbiamo assistito alla mediatizzazione di un momento di profonda umanità, che in fondo è quello a cui siamo abituati da una quindicina di anni a questa parte: dai 240.000 euro che Sky sganciò per la diretta del matrimonio con la "letterina", al libro delle barzellette, alle ospitate da Maria De Filippi in attesa del fatidico aho, ma de che, embè, che ce lo fa tanto simpatico. Facce ride Francè.

Domenica scorsa Totti ha salutato la Roma e ha provocato diverse crepe strutturali nei metri cubi di plastica sorti attorno a lui come ecomostri in questi anni di prolungata esposizione mediatica. Dietro ai brand del campione di successo e del burino simpatico e un po' coatto che ancora a lungo imperverseranno nel nostro immaginario pop, domenica scorsa c'era un uomo che stava dicendo addio a una grossa parte di se stesso e c'eravamo noi. Dice bene Scanzi sul Fatto Quotidiano: «Quando uno come Francesco Totti si ritira, non è che gli appassionati piangano solo perché un campione smette [...] Ieri non ha smesso solo Totti: abbiamo smesso tutti noi di stare dentro quei decenni in cui lo abbiamo visto giocare. Per ogni sua partita, una nostra madeleine. Non è mai solo calcio: è memoria, è condivisione, è appartenenza. Ed è tempo che passa: il peggiore degli avversari.» Nel singhiozzo che Totti trattiene a stento nella sua invettiva contro il tempo: «maledetto tempo», c'è la sua resa di fronte a questo avversario, la sua resa che in fondo è anche la nostra, ecco le lacrime che piovono dagli spalti dell'Olimpico.

Al di fuori della cintura urbana attorno a Roma suonerà forse blasfemo, ma il paragone più calzante che mi viene in mente è quello con la morte di Papa Wojtyla, volenti o nolenti una presenza costante nelle vite di almeno due generazioni, indipendentemente dalle convinzioni religiose. Per 27 anni le sue immagini dalla finestra di San Pietro sono state una costante della nostra quotidianità, in TV a tavola con i parenti o sulle riviste che leggevamo in sala d'aspetto dal dottore. Per molti, me compreso, l'unico papa conosciuto fino a quel momento e l'archetipo di quelli successivi. Lo stesso dicasi a suo modo per Totti, su cui due generazioni di tifosi romanisti e non solo hanno forgiato il loro modello di capitano e di bandiera nel calcio. Il tempo che domenica scorsa ha bussato sulla spalla di Francesco è venuto a svegliare anche noi, ricordandoci una volta di più che gli anni sono passati, che il 17 giugno del 2001 è sempre più lontano, che l'interminabile partitella che stavamo giocando a 40°C sul campetto di cemento di fianco alla chiesa è finita.

Storica stretta di mano tra Papa Giovanni Paolo II e il futuro Papa Francesco.

Adesso ho paura
Ora scendo le scale, entro nello spogliatoio che mi ha accolto quando ero un bambino e che lascio adesso che sono un uomo. [...] Adesso ho paura. Non è la stessa cosa che si prova di fronte alla porta quando devi segnare un calcio di rigore. Questa volta non posso vedere attraverso i buchi della rete per vedere cosa ci sarà dopo.

Pietro Pellegri, il giovane attaccante che ha segnato il goal del vantaggio genoano contro la Roma domenica scorsa, compiva tre mesi di vita quel 17 giugno 2001 che consacrò Totti nuovo Cesare. Non era ancora nato quando Totti entrava di prepotenza nella cultura popolare italiana con il suo "cucchiaio". È una realtà a cui dovrei aver fatto l'abitudine, d'altra parte sui 529 giocatori che hanno preso parte alla stagione 2016/2017 ben 168 non erano ancora nati quando Totti esordì in Serie A 24 anni fa: il 32%. Invece no, la percezione di Totti speranza del calcio italiano, cioè quando presi coscienza di chi egli fosse, è dura a morire nel mio immaginario, sempre più distorto dalle primavere che passano e che dilatano la memoria alterandone i contorni. Da ragazzino cinque anni sono un'era geologica, un intero ciclo scolastico, il passaggio dalle macchinine Burago alle canne, la piena maturazione che porta una giovane promessa a diventare un campione affermato, lo spazio di due Mondiali finiti ai rigori. Da grande cinque anni appaiono compressi, milioni di terabyte zippati in una cartella dove tutto appare contiguo, a portata di mano ma dove è facile perdere il bandolo della matassa.

La fascia che Totti ha trovato da bambino e che lascia adesso che è un uomo.

Crescendo il tempo mi sembra scorrere più lentamente, le cose appaiono più vicine di quanto non siano, almeno fino a quando non ti imbatti in uno di quei momenti in cui un dettaglio di poco conto ti dice più di quello che vorresti sentire, accelera alla velocità della luce e restituisce alla memoria quella profondità che mette le vertigini. L'addio di Totti di domenica scorsa è stato uno di quei momenti, una di quelle pietre miliari che interrompono per un po' l'insondabile scorrere del tempo e che invitano a riflettere. Riflettere su quel tempo che è passato senza che ce ne accorgessimo e che quando te ne accorgi fa paura.

Non ho idea di chi sia Francesco Totti sotto la maglia che porta, chi sia al di là dei suoi piedi fatati e del modello preconfezionato di spontaneità a cui è stato ridotto dai guru del marketing, credo però che quel discorso, dalla carica immaginifica un po' sospetta, contenga due gemme di vera sincerità: una è il sopracitato grido di disperazione contro il tempo, l'altra è la candida ammissione della paura. «Adesso ho paura» dice chiaramente Totti svestitosi dei suoi miliardi e del suo talento. Paura di lasciare ciò che è sempre stata la sua vita, paura, chissà, di doversela reinventare la vita. Voglio vederci sincerità in quelle parole, una spontaneità che va oltre tutti gli aho, ma de che, embè che ha dovuto dire e che produce, come è normale, scelte contrastanti, confuse, probabilmente dannose. Dal tweet precedente la sua ultima partita, al suo «continuo, continuo, nun so dove ma continuo» catturato in un video alla fine serata in  suo onore, si intravede la vulnerabilità di un uomo che proabilmente ha capito quale sia la scelta migliore ma che non vuole prenderla perché non vuole arrendersi, vuole scappare, non so, semplicemente ha paura.

28 marzo 1993: la Roma ha da tempo messo in ghiaccio la partita contro il Brescia con due goal di Caniggia e Mihajlovic. A due minuti dalla fine l'allenatore dei giallorossi, Vujadin Boskov, senza distogliere gli occhi dal campo invita un ragazzo a scaldarsi. Si alza Roberto Muzzi, giovane bomber dell'Under 21. Sta per aprire la cerniera della tuta con la scritta "Barilla" quando Boskov si gira e dice: «No, non tu. Tu!» rivolgendosi a un sedicenne con i capelli rossicci. Il suo nome è Francesco Totti, aggregato alla prima squadra dopo aver segnato il giorno prima con la Primavera. Con svariate decine di microgrammi di adrenalina nel sangue il ragazzo si alza, esegue qualche mossa di stretching e prende il posto di Ruggiero Rizzitelli.

A qualche centinaio di chilometri c'è un bambino che gioca, da solo o con gli amici, in casa o al parco, non ricorda. È un po' amareggiato perché sa che dovrà andare a letto presto, il giorno seguente inizia un'altra dura settimana alla scuola materna. L'estate però non è così lontana. Tre mesi senza pensieri, sullo sfondo mare, sabbia, amici. Il futuro gli tende la mano e lui sorride.

28 maggio 2017: la Roma sta pareggiando l'ultima di campionato con il Genoa ma sa di dover vincere se vuole mantenere il secondo posto in classifica e guadagnarsi l'accesso diretto alla Champions. All'inizio del secondo tempo la partita è bloccata e l'allenatore dei giallorossi, Luciano Spalletti, fa quello a cui deve aver pensato per tutta la settimana. Un uomo maturo, sulla quarantina ma dal fisico invidiabile, si alza dalla panchina, un boato accoglie il suo gesto. Tutti sanno che quella sarà l'ultima volta che lo vedranno giocare, almeno con quella maglia, lo sa anche lui. Lo speaker dell'Olimpico fa quello che ha fatto per anni, scandisce il nome del "Capitano" chiamando la risposta del pubblico: «Totti!». Mohammed Salah gli fa posto e Totti dopo pochi istanti è chiamato a battere un calcio d'angolo. Come gli capita da un po' non corre più tantissimo ma lo spirito di sacrificio non manca, non lo ha mai fatto d'altra parte. A pochi minuti dall'ingresso in campo regala due saggi della sua grandezza: prima nasconde per brevi istanti un pallone che la maggior parte dei giocatori attorno a lui avrebbe perso, il tempo di tenerla in vita e consegnarla a un compagno, poi con un lancio chilometrico che da metà campo pesca la testa di El Shaarawy in mezzo all'area avversaria.

A qualche centinaio di chilometri c'è un ragazzo che maledice i buffering che talvolta interrompono lo streaming dell'ultima partita di quell'uomo sulla quarantina. Gli occhi del ragazzo, ormai un uomo anche lui, ma non diteglielo, sono avidi di ogni momento in cui le telecamere riprendono il campione, consapevole che quella sarà l'ultima volta. C'è lo stupore di fronte a un tocco sublime quanto secondario quando, pressato nello stretto, con il pallone già perso, il "Capitano" gli regala una dolce traiettoria a palombella, l'unica possibile per raggiungere il compagno nascosto dietro a due avversari. C'è il fastidio per il perenne senso di incompletezza che il ragazzo avverte anche in quel momento, lo stesso che egli prova quando a sfuggire non è un pallone ma l'essenza del tempo. C'è la fretta, si sta preparando per il compleanno di un amico che già da un po' ha scollinato i trenta. Sa che dovrà lasciare Totti nel bel mezzo del suo ultimo ballo. Scarpe, maglietta, chiavi, è già fuori. L'estate è alle porte. Il futuro bussa sulla spalla e ho paura.

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