venerdì 27 dicembre 2019

Necrologio 2019

Non c'è che dire, quest'anno me la sono presa comoda. Con le forze residue lasciatemi dal misero post pubblicato in questo 2019, rieccomi a pagare il giusto tributo a chi ha deciso di lasciare il rettangolo verde e fare ufficialmente ingresso nel nostro immaginario nostalgico.

Xavi
39 anni
C'erano Giovanni e Phillip Cocu al suo fianco la sera del 18 agosto 1998, quando Louis Van Gaal scelse il diciottenne Xavi Hernandez come regista di centrocampo nell'andata della finale di Supercoppa contro il Mallorca di Hector Cuper. Ad arbitrare l'incontro Antonio Lopez Nieto, praticamente un'era geologica fa. Basteranno sedici minuti al giovane Xavi per segnare il goal del momentaneo e inutile vantaggio blaugrana, i vent'anni successivi li impiegherà invece per entrare nella storia del calcio. Pareva aver smesso da molto più tempo, almeno dal 2015, anno in cui, messa in bacheca la quarta Coppa dei Campioni in carriera, ha lasciato la natia Catalogna per guadagnarsi gli ultimi meritati milioni tra le dune del deserto. L'ultimo incontro ufficiale però risale solo al maggio scorso, quando con la maglia dell'Al Sadd, che ha anche guidato in veste di allenatore nel recente Mondiale per Club, ha tagliato il traguardo delle 1133 partite tra i professionisti. Dotato di una visione di gioco e di un tocco fuori dal comune, per efficacia e palmares è forse il giocatore più forte degli ultimi 25 anni, primato che solo la posizione in campo occupata da Messi e Ronaldo hanno potuto togliergli. Personalmente lo associerò sempre al coetaneo Gabri, suo compagno ai tempi di Van Gaal e nelle giovanili spagnole. L'avvento di Guardiola sulla panchina del Barça segnerà lo snodo di due carriere che dalla Masia sembravano avere seguito strade parallele: nell'inestricabile trama di passaggi in cui  si esplicherà la rivoluzione del tecnico catalano Xavi troverà il suo habitat naturale, compiendo quel salto di qualità nel quale, a 26 anni, non tutti credevano più. Gabri invece preferirà migrare verso una scuola calcista altettanto nobile come l'Ajax ma con meno fortuna, infatti oggi allena la Nazionale di Andorra.

Andrea Barzagli
38 anni
Praticamente sono due le carriere vissute da Andrea Barzagli nei suoi vent'anni di calcio professionistico. È lui a formare con Cesare Bovo la coppia difensiva dell'Under 21 di Gentile che in Germania conquista il titolo europeo di categoria. È lui l'ultimo centrale di ruolo rimasto a Lippi nell'ottavo di finale contro l'Australia dopo l'infortunio di Nesta e l'esplusione di Materazzi nel Mondiale tedesco del 2006. Da campione del mondo prosegue la sua ascesa con il Palermo di cui diventa capitano. Nel 2008 arriva la chiamata del Wolfsburg, dove approda insieme al compagno di avventure Zaccardo. Sempre in Germania Andrea coglie la sua terza grande soddifazione, lo Schale vinto alla sua prima stagione con i biancoverdi. È qui però che, a 29 anni, la carriera di Barzagli sembra avviarsi su un binario morto. Le presenze stagionali diminuiscono bruscamente e la Nazionale appare un miraggio sempre più lontano. L'Italia lo dimentica ma Marotta, da poco approdato alla Juventus e alle prese con una stagione a dir poco disastrosa, ha ben presente le qualità del difensore toscano e ancora di più il suo valore di mercato, pressoché azzeratosi nel corso dell'anno precedente. Barzagli viene acquistato per 300.000 euro da una Juve in lotta per la qualificazione in Europa League. L'esordio è una squallida sconfitta per 2-1 in casa contro il Palermo, il finale di stagione è un settimo posto che gli chiude le porte dell'Europa ma è anche la tabula rasa da cui Antonio Conte inizia a riscrivere la storia bianconera e dove Barzagli vede fiorire la sua seconda giovinezza. Nella nuova difesa a tre disegnata da Conte Barzagli cementa un'intesa con Chiellini e Bonucci che si riproporrà anche in Nazionale, dove Andrea fa ritorno nel 2011, all'alba del ciclo bianconero che lo porterà, otto anni dopo a lasciare il calcio con all'attivo 8 Scudetti, 4 Coppe Italia, 4 Supercoppe Italiane, due finali di Champions League, due Europei e un secondo Mondiale disputato,  prima di chiudere con le lacrime di Bordeaux e con lo spareggio di San Siro che è costato all'Italia la qualificazione ai Mondiali in Russia.

Claudio Marchisio
33 anni
Inserirlo in questa rubrica così presto fa uno strano effetto, lo faccio con un po' della tristezza che deve aver accompagnato Claudio nella decisione di lasciare il calcio a 33 anni. Il "Principino" è stato uno dei rari casi di juventinità che, diagnosticata nei primi anni di vita, sia giunta a piena maturazione. Pensateci: non sono troppi i giovani del vivaio juventino che dalla trafila delle giovanili sono riusciti a raggiungere i massimi traguardi vestendo la maglia bianconera, diventandone simbolo e capitano per giunta! Non siamo mica a Roma dopotutto. Complice del curioso caso di Claudio Marchisio la retrocessione scaturita da Calciopoli che obbliga il neo-tecnico Deschamps a puntare su giovani del vivaio come De Ceglie, Giovinco e Marchisio, subito tra i titolari dopo gli assaggi di prima squadra concessisgli da Capello. Dopo una promozione annunciata ma vissuta comunque da protagonista, Marchisio parte insieme all'amico Giovinco per l'anno di apprendistato a Empoli dove Gigi Cagni e Alberto Malesani faranno le veci di Virgilio nel suo prima anno di Serie A. La retrocessione non scoraggia la dirigenza juventina che lo riporta a casa per farne il nuovo Tardelli. Ranieri, Ferrara, Del Neri, nutrono tutti stima per quel ragazzo così serio e attaccato alla maglia che finisce inevitabilmente per conquistare anche le fiducia di Lippi che lo convoca per il Mondiale in Sudafrica. Tra le macerie che Conte trova al suo arrivo, Marchisio è uno dei pochi pilastri sul quale poter costruire il suo progetto tutto movimento e velocità. Insieme a Vidal costituisce il cordone di sicurezza entro cui il genio di Pirlo può esprimersi al meglio, al contempo però non disdegna gli ineserimenti offensivi, eredità dei suoi esordi da attaccante ed esaltati dal gioco di Conte. La finale dell'Europeo 2012 certifica come ci si trovi davanti a uno dei centrocampisti più forti d'Europa. Il suo regno al centro dello schieramento e del progetto Juve, a dispetto del titolo nobiliare affibbiatogli, comincia a scricchiolare già l'anno seguente, quando a Torino atterra un ragazzone francese che Marotta è riuscito a prendere a parametro zero dal Manchester United: un certo Paul Pogba. Gl infortuni sempre più frequenti di Marchisio vanno di pari passo con la crescita progressiva di Pogba che già nella seconda parte della sua prima stagione convince Conte a schierarlo con regolarità. L'arrivo di Allegri non inverte la rotta e Marchisio è sempre più considerato il 12° uomo bianconero, ruolo che egli veste con la consueta eleganza. Messo alla porta dal corso degli eventi, un infortunio di Pogba e la necessità di fare rifiatare l'attempato Pirlo permettono a Marchisio di rientrare dalla finestra e cimentarsi con nuove soluzioni tattiche che gli fanno vestire i panni una volta del regista arretrato, un'altra del trequartista. È nella stagione della sua prima finale di Champions che Marchisio dimostra ancora di più la sua grandezza. Punto fermo di un'Italia che il nuovo CT Conte vuole plasmare a immagine e somiglianza della sua Juve, solo un infortunio al ginocchio nega a Marchisio la gioia di prendere parte alla sorprendente spedizione azzurra ad Euro 2016. Gli infortuni però si sommano e la concorrenza nel centrocampo della Juve globale di Andrea Agnelli erodono gradualmente lo spazio concesso al "Principino" che, valigie in mano, sulla soglia della porta di quella che era stata per 25 anni la sua casa, si leva un sassolino dalla scarpa gettando luce sul clima creatosi dopo l'arrivo di CR7 a Torino. Un anno allo Zenit, l'ennesimo infortunio e poi un ritiro del quale avrei preferito non scrivere così presto.

Samuel Eto'o
38 anni
«Sei il miglior giocatore africano di sempre?» «È un fatto. Non c'è bisogno che lo dica». Questo è Samuel Eto'o e questo è ciò che pensa di se stesso. Un anno dopo il passo d'addio di quella che per un decennio è stata la sua nemesi, Didier Drogba, anche il camerunense dice basta. Lo fa dopo quattro anni passati nell'oscurità, nelle retrovie della Süperlig turca e del campionato qatariota, anni nei quali oltre a continuare a segnare, sembra abbia preparato il suo avvenire. Allenatore? Lo ha già fatto all'Antalyaspor, alternandosi dentro e fuori dal campo. Dirigente sportivo? Malgrado la riluttanza a gettarsi nell'agone politico, non ha fatto mancare il suo peso nelle recenti elezioni per la presidenza della Fecafoot, la federazione camerunense, e il nuovo presidente della CAF Ahmad Ahmad lo ha richiesto come collaboratore insieme a Drogba. Imprenditore? Eto'o è già azionista di Betoo, piattaforma di scommesse Made in Africa e si appresta a prendere la strada di Harvard, dove seguirà un corso di economia e management. Infine c'è l'opinionista. Non il semplice commentatore sportivo, un abito troppo stretto per la sua debordante personalità, ma un opinion leader nel senso sociologico del termine, capace di accendere i riflettori su questo o quel tema come ha fatto a proposito della recente assegnazione del Pallone d'Oro, ancora una volta ad appannaggio di Messi e a discapito di giocatori come Mané e Salah, i quali sconterebbero ancora l'antico pregiudizio verso i calciatori africani. Eto'o si è ritirato da poco più di tre mesi ma non ce ne siamo neanche accorti.

Petr Cech 
37 anni
Se ne va uno dei portieri, insieme a Buffon e Casillas, che a turno si sono contesi lo scettro di migliore interprete del ruolo nel primo decennio di questo millennio. A farlo è curiosamente il più giovane dei tre, il trentasettenne Petr Cech, l'uomo  che Mourinho e Abramovich scelsero per mettere in sicurezza il loro visionario progetto di scalata all'Europa portato rocambolescamente a compimento da Roberto Di Matteo nel 2012. Cech è stato per tutti il portiere del Chelsea con il caschetto, quello che scelse di indossare in seguito a un infortunio occorso nel 2007, ma per me è soprattutto il gigante che ipnotizza gli avversari durante i rigori della finale degli Europei Under 21 che la Repubblica Ceca vince contro la Francia nel 2002. Da lì ebbe inizio la carriera da predestinato profetizzata da un vecchio Guerin Sportivo e che oggi non ha più come sfondo il verde del campo da calcio ma il bianco del ghiaccio. Cech infatti non ha tolto guanti e casco, anzi, ha imbracciato una mazza da hockey e oggi difende la porta di una squadra inglese di seconda divisione.

Wesley Sneijder
35 anni
L'Olanda conta ad oggi sei Palloni d'Oro, Cruyff e Van Basten infatti ne hanno alzati tre a testa, l'ultimo dei quali nel 1992 eppure... eppure da qualche parte, ne sono certo, Lionel Messi conserva il settimo di questi Palloni d'Oro (se non l'ottavo, un saluto a Virgil Van Dijk), quello che avrebbe potuto essere assegnato a Wesley Sneijder nel 2010. Quell'anno il centrocampista olandese fece vedere tutto quello che gli istruttori dell'Ajax e i dirigenti del Real Madrid che lo acquistarono tre anni prima avevano pensato fosse in grado da fare. 41 partite e 8 goal non sono numeri sufficienti a spiegare il suo peso nella conquista del Triplete, apice di una carriera esauritasi troppo presto.

Arjen Robben
35 anni
Un giocatore iconico, non tanto nell'immagine quanto nei movimenti. La corsa ingobbita dalla destra, il rientare sul sinistro per scagliare i suoi potentissimi tiri dalla distanza hanno fatto epoca oltre che scuola, anticipando gli esterni a piedi inveriti che imperversano oggi sui campi di tutta Europa. A dispetto delle sembianze da cinquantenne, per me Robben è la giovane promessa del PSV vista ai recenti Europei... del 2004. L'impressione destata dall'esterno olandese ha convinto il nuovo presidente del Chelsea, il magnate russo Roman Abramovich, ad acquistarlo insieme al portiere Cech. Il nuovo tecnico José Mourinho, fresco di Champions con il Porto, si trova così a guidare una squadra che ha tutte le carte in regola per insidiare i campioni dell'Arsenal e i favoriti di sempre dello United. Le sue movenze ricordano Alessio Cerci.

Robin Van Persie
36 anni
L'ennesima ferita di un'emorragia nostalgica che negli ultimi tre anni ha privato l'Olanda di Kuyt, Van Der Vaart, Sneijder, Robben e Van Persie. Quasi 200 partite e 100 goal: questi i numeri di quello che dalle parti di North London era considerato l'erede naturale di Dennis Bergkamp. Arrivato all'indomani della storica stagione degli "Invincibili", Van Persie, oltre che la nazionalità e il fiuto per il goal, condivideva con il suo capitano anche l'amore dei fans che in lui avevano trovato il simbolo capace di portare avanti l'eredità dei campioni che, anno dopo anno, abbandonavano l'Emirates Stadium. Nel 2012 i 30 goal in campionato e i 5 segnati in Champions fanno di Van Persie uno dei pezzi pregiati del mercato. Tornando a quell'estate Van Persie parla della relazione con l'Arsenal come quella con una sposa che dopo otto anni sente svanire l'interesse verso il suo amato. Il fatto che al posto dell'amorevole moglie ci fosse il direttore generale dell'Arsenal Ivan Gazidis e la sua proverbiale spilorceria fa capire quale fosse la reale natura della crisi. Combattuto tra le due sponde di Manchester, Van Persie consola le sue pene d'amore in un quadriennale da 8 milioni di euro gentilmente offertogli dallo United. È l'ultima fatica di Sir Alex Ferguson, con cui Van Persie vince il campionato bissando il titolo di capocannonniere dell'anno prima. Nella sua prima stagione all'Old Trafford realizza anche quello che sarà eletto il goal più bello della Premier. Un anno più tardi, ai Mondiali in Brasile, segna invece quello che è probabilmente il suo goal più celebre, il colpo di testa in tuffo con cui l'Olanda trova il momentaneo pareggio nel 5-1 inflitto alla Spagna. Varcata la soglia dei trent'anni Van Persie deve aver accettato i consigli del suo ex compagno Dirk Kuyt, del quale sembra seguire pedissequamente le orme: prima l'esilio dorato al Fenerbahce e poi il ritorno a casa al Feyenoord, dove la mia memoria lo colloca tuttora nell'attacco di Fifa 2004, accanto proprio a Kuyt e all'"indimenticabile" Danko Lazovic.

Fernando Torres
35 anni
Un altro caso di due carriere al prezzo di una. La prima è facilmente riassumibile con quattro flash. Il primo: io alle prese con il solito Guerin Sportivo che leggo di come l'Atletico Madrid, caduto in seconda divisione, ha fatto esordire un baby fenomeno di 17 anni appena che ha anche segnato un goal. Dovevo ancora finire le medie. Il secondo: 28 aprile 2004, si gioca Italia-Spagna. È un'amichevole di preparazione agli Europei che si sarebbero giocati qualche mese dopo ma è soprattutto la passerrella finale che Trapattoni ha concesso a Roberto Baggio dopo aver chiuso le porte a una sua eventuale convocazione in Portogallo. Nel mezzo della meraviglia generale suscitata, come sempre, dal "Divino" fa il suo ingresso in campo il Niño. È lui, lo riconosco, è quello che vidi in foto qualche anno prima: gli stessi brufoli ma con i capelli biondi. Quella sera Fernando Torres segnerà il suo primo goal in Nazionale. Terzo: 29 giugno 2008, Xavi lancia Torres che, chiuso da due difensori tedeschi, lascia sfilare il pallone e aggira l'avversario alla sua destra, colpisce il pallone per primo, il tanto che basta per superare il portiere in uscita. La Spagna è campione d'Europa e oltre a un gioco straordinario ha uno degli attaccanti più forti del pianeta. La seconda metà della carriera di Torres, che a ben guardare è stata anche più lunga della prima, è invece avvolta da una foschia che, complici gli infortuni da una parte e il passare degli anni che annacqua i miei ricordi dall'altra, sembra aver gradualmente appannato il talento del centravanti spagnolo. Nel giro di pochi mesi Torres passa dall'essere l'attaccante implacabile di Liverpool al mezzo bidone del Chelsea, che nella più improbabile delle stagioni centra l'obiettivo più grande. È l'altro grande paradosso di Fernando Torres che, tolto l'Europeo del 2008, ha colto tutti i suoi successi nei momenti meno fulgidi della sua carriera, come i Mondiali del 2010, gli Europei e la Champions del 2012 o le Europa League del 2013 e 2018. Dopo un dimenticabile passaggio al Milan torna all'Atletico, dove nel 2016 ritrova la doppia cifra dopo sei anni. Una volta a casa, Simeone ricostruisce il suo profilo, quello di un attaccante buono per le grandi occasioni, dal goal non facilissimo, ma ottimo da buttare nella mischia quando la posta è alta. Poteva diventare uno dei grandi del calcio mondiale, è stato un grande della Roja, una leggenda per la metà di Madrid.

Sergio Pellissier
40 anni
Dici Pellissier, dici Chievo. Quello dei miracoli, anche se a dire il vero Sergio arrivò nella seconda stagione disputata dai "Mussi" in Serie A, dopo 14 goal segnati in C1 con la Spal. Acquistato per fare da riserva a bomber Marazzina, rimasto orfano del compagno di reparto Corradi, partito per l'Inter, Del Neri gli concederà 25 gettoni nei quali metterà a segno 5 goal. Passano le stagioni e il Chievo è sempre lì, lo stupore lascia spazio all'indifferenza nella quale Pellissier accumula partite e goal. Nel 2006 le sentenze di Calciopoli fanno balzare il Chievo al quarto posto e così arriva anche la soddisfazione di giocare la massima competizione europea, seppure ai preliminari. Ritrovata la Serie A dopo un anno di purgatorio, nei tre anni successivi Pellissier raggiunge sempre la doppia cifra, guadagnandosi anche una convocazione in Nazionale con goal in un'amichevole contro l'Irlanda del Nord. Lascia quest'anno dopo una polemica sorta attorno alle sue simpatie politiche e una retrocessione ma soprattutto dopo il diciasettesimo anno consecutivo a segno con la maglia gialloblu. Nel frattempo è già a processo per una presunta truffa immobiliare. Di diritto tra i miti di provincia.


Consuete menzioni d'onore per tutti gli altri che non ho inserito per ragioni di tempo e spazio: David Villa, qui all'ultima staffetta con Fernando Torres, Peter Crouch (la sua robot dance meritava qualche riga), il brasiliano Juan, Patrice Evra, la cui carriera social promette di durare a lungo, John O'Shea, uno di quelli che ho continuato per anni a credere giovane, Yossi Benayoun, Ashley Cole e, udite udite, Siyabonga Nomvethe, mitologico attaccante sudafricano transitato in Italia nei primi anni Duemila, che alla soglia dei 42 anni ha lasciato il calcio con il record di goal segnati nella massima serie sudafricana.

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