domenica 3 luglio 2016

Come lacrime nella pioggia


Qualcosa di fragile, di impalpabile ma maledettamente realistico, come uno di quei sogni troppo belli che svaniscono nel momento stesso in cui inizi a prenderne coscienza. Ieri sera è stato così. Lo è stato per noi, che a migliaia di chilometri, birra alla mano, guardavamo Florenzi affogare nella pozzanghera del suo stesso sudore, più preoccupato di schivare gli anatemi che Conte gli scagliava da bordo campo che a coprire su Özil, o Sturaro, che in preda ai crampi, dopo 120 minuti passati in apnea, si produce in uno scatto all’inseguimento di Schweinsteiger che lo trasfigura, ne fa un Siddharta Gautama qualsiasi che nel bel mezzo dello stadio Matmut-Atlantique di Bordeaux trova il suo albero dell’illuminazione sotto il quale gli si dischiudono le Quattro nobili verità del credo “contiano”. È  stato lo stesso per chi su quel campo ci ha giocato. E ha pianto.

Forse non è del tutto chiara la misura dell'impresa che “la Nazionale più scarsa di sempre” ci ha illuso di poter compiere e forse non lo sarà mai. Arrivata a Montpellier con un centrocampo di fortuna, si è trovata decimata all'appuntamnto più importante. Oggi però è già domani, il calciomercato macina pagine di quotidiano e la corsa all’ultimo presunto top player, che tanto in Italia non vedremo prima dei 35 anni, incombe. Tutto troppo veloce, non c’è tempo per riflettere, non c’è tempo per capire come “i peggiori di sempre”, quelli “brutti, sporchi e cattivi” si siano permessi di giocare alla pari con i migliori del mondo.

Sia chiaro, come sempre capita, il grado di soddisfazione per la prestazione della Nazionale è inversamente proporzionale alle aspettative nutrite alla vigilia. Fu così quattro anni fa, quando la sbornia polacca e i muscoli di Balotelli caricarono di ingiustificata attesa il Mondiale brasiliano. Così non sarà questa volta, o almeno credo.

Due cose mi hanno colpito ieri sera, anzi tre. Tralasciando la decisione di Löw di modificare il proprio schieramento apposta per noi, la prima è stata la scena della squadra che in attesa dei supplementari, al segno di Conte, si sposta in massa, all’unisono, non ad accorciare sulle linee di passaggio avversarie ma verso Chiellini, sofferente e impossibilitato a muoversi dalla panchina. La seconda, che riassume la prima e tutto il resto, è stato il pianto di Barzagli e Buffon. Non le lacrime, il pianto.

Un 2 luglio di lacrime.
Le esigenze di mercato, che impongono spazi pubblicitari sempre più serrati, hanno ridotto i momenti in cui gli spettatori possono indugiare sui festeggiamenti dei vincitori e sullo smarrimento degli sconfitti. Ieri era il 2 luglio, esattamente sedici anni da Rotterdam e dalla secchiata gelata con cui Trezeguet ci svegliò da un sogno analogo. Ieri però non ho visto le stesse lacrime. Allora la posta in gioco era più alta, il successo forse ancora più vicino, la mia delusione fu enormentemente più grande, probabile segno dell’età adulta che, nonostante tutti i miei sforzi, mi chiama a sè. Ricordo Cannavaro pietrificato, con una mano in bocca, alzata forse per coprire il viso e poi dimenticata lì, a mezza altezza, indifferente alla pioggia di rimpianti che si infrangeva sulle sue spalle. C’era Toldo con gli occhi lucidi e il sangue che gli colava sul labbro superiore e c’era Zidane, che trovava un po’ di tempo per andare a consolare gli avversari, molti dei quali suoi compagni di squadra. Sarà stata distrazione, sarà stato lo spot della Hyundai I20, ma ieri quelle scene non le ho viste. Di allora c'era l'orgoglio per un risultato insperato, unico lenitivo alla sconfitta, ma mi aspettavo che i vecchi andassero a consolare i giovani, invece ho visto i primi più a terra dei secondi. Quello che ho visto era un’atmosfera strana, come quando ti svegli di soprassalto, impacciato e inerme, sospeso tra un sogno bellissimo che credevi di poter toccare e la realtà che ti restituisce alla sua tragica ordinarietà senza lasciarti il tempo di reagire. Ho visto una squadra tornare tragica e ordinaria in un istante.

Le telecamere ci hanno fatto solo intravedere quell’atmosfera che sapeva più di stordimento che di delusione, con Buffon che si rialza frettolosamente dopo l’ultimo rigore, i nostri in mezzo al campo che piano piano riprendono contatto con il mondo reale, Conte, che secondo me non si era ancora completamente svegliato, ai microfoni RAI sembra assente, magari con la testa alle sedute tattiche che impartirà ad Hazard e compagni. Quesi secondi li ho passati osservando morbosamente il teleschermo, in cerca di quella delusione adolescenziale che mi colpevolizzo di non riuscire più a provare. Passati i primi minuti e lasciato decantare lo stordimento, ecco però che appare Barzagli. Mi aspetto le solite frasi di rito, soprattutto da uno come lui, da uno della sua esperienza. Chissà quante ne ha passate quello lì, farà i complimenti a tutti, rimarcherà la compattezza del gruppo e del lavoro fatto, mi sto già pentendo di essere rimasto a seguire il dopo-partita. Invece ecco che il 35enne Barzagli mi rovescia addosso ettolitri di emotività in 4K (no scherzo, sulla mia TV neanche il pallino blu si riesce a vedere). «Quello che rimane è la delusione. Di quello di bello che abbiamo fatto, secondo me, non rimarrà niente.» Il protocollo va completamente a puttane dopo una trentina di secondi, quando Barzagli non riesce più a trattenere le lacrime e grida la resa con un «non me ne frega un cazzo». Seguono, per me, i secondi più dolorosi dell’Europeo e del calcio degli ultimi anni, con un campione del mondo che parlando a stento ci vomita in faccia la cruda realtà quando dice che tra qualche anno nessuno si ricorderà di una Nazionale che ha dato tutto, una Nazionale dove c’era «voglia di stare insieme».


Riconciliatomi per un secondo con il ragazzino capace di illudersi e soffrire per la Nazionale, ho pensato che per una volta tutte le puttanate che si dicono nel calcio, “il progetto”, “il gruppo”, “la grande famiglia”, potessero essere vere. Almeno per una volta. Poco dopo, l’intervista di Buffon è surreale, i singhiozzi e la voce alterata dal pianto sono il sottofondo di un’analisi lucida che conferma l’impressione che non si sia trattato di una sconfitta qualsiasi. Non è normale che gente che ha giocato Mondiali e finali di Champions reagisca così per un quarto di finale perso. Che ci sia stato veramente qualcosa in questo “gruppo”, che inquadrato in un vero “progetto” ha saputo diventare di più della semplice somma dei suoi elementi, una squadra, una “famiglia”?

Deve esserci stato di più di Buffon al suo ultimo Europeo, di Barzagli alla sua ultima in "azzurro". La consapevolezza che forse un'occasione così non capiterà più, che un'Italia a certi livelli difficilmente la vedremo in tempi brevi non basta a spiegare quelle lacrime. C'era forse la frustrazione di un gruppo che ha tirato fuori molto di più di quello che poteva dare, e il rimpianto che questo, in fondo, sarebbe potuto bastare. Fin dai giorni del ritiro a Coverciano Conte ha ripetuto che saremmo arrivati dove avremmo meritato, l'importante sarebbe stato finire senza rimpianti. Non c'è nulla che i suoi ragazzi possano rimproverarsi, eppure all'ombra dell'orgoglio per un risultato prestigioso e insperato, si annida il rimpianto, il sogno non così proibito che a piangere sarebbero potuti essere ancora una volta i tedeschi, che tutta la fatica, l'applicazione e la tensione nervosa messa in campo da una generazione di calciatori più che normali, presto o tardi andranno perse, come lacrime nella pioggia. I tweet, le grida si scherno e indignazione verso Pellè e Zaza ci hanno messo presto a convincermi delle ragioni di Barzagli.

Questo gruppo meritava davvero? Non lo so. Quello che so è che questa è stata una Nazionale unica. L’unica Nazionale dove l’individualità di spicco era rappresentata dal signore in giacca e cravatta che (non) sedeva in panchina. Una Nazionale che tolti quattro o cinque elementi, una cresta, una barba, faceva sollevare più di qualche interrogativo circa l'identità dei suoi componenenti. Una Nazionale il cui centravanti era un esule salentino fuggito dall'Italia e rimasto latitante per anni, dimenticato tra Olanda e Inghilterra, prima che le ragazze, prima ancora che i loro fidanzati, ne imparassero ad apprezzare le sponde. “La peggiore Nazionale di sempre”, che in virtù dei suoi limiti ha creato aspettative incredibilmente basse, e che con ore di video, di schemi, di movimenti ripetuti all’infinito sotto la minaccia del suo aguzzino pugliese ha saputo superarle una dopo l’altra, quelle aspettative. L’unica Nazionale, e qui la sparo grossa, che è riuscita a realizzare il sogno "sacchiano" di un gioco in grado di prescindere dalle individualità. Questa è la prima volta che una Nazionale italiana verrà applaudita dopo essere uscita ai quarti di finale di un torneo internazionale. Spero che almeno questo ce lo ricorderemo.

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