venerdì 1 maggio 2020

Il primo Clásico non si scorda mai

La quarantea continua, il tempo non manca: godetevi questo Clásico perché potrebbe essere l'ultimo dell'anno.


Ho sempre considerato la stagione 1994/95 come quella del mio esordio calcistico, se così possiamo dire. Rapito da quel caleidoscopio di colori che giungevano dall'altra parte del mondo ad orari improbabili, furono l'estate dei Mondiali americani e l'azzurro saturo della maglia di Roberto Baggio a donarmi per la prima volta una sorta di coinvolgimento emotivo per il pallone. All'inizio della successiva stagione calcistica quindi a mio nonno non pareva vero di poter contare su quell'unico nipote maschio che aveva tanto atteso che divenisse tale per poterlo finalmente introdurre alle gioie del calcio, delle scommesse e del vino da tavola.

Ricordo che iniziai a seguire trasmissioni come 90° Minuto e Domenica Sprint alla costante ricerca delle immagini di quelle partite di cui sentivo solo parlare. Sprovvisto di abbonamenti e decoder con i quali la fu Tele+ aveva blindato il calcio all'epoca dei primi contratti per i diritti televisivi, la mia unica alternativa ai frattali criptati della pay tv durante le dirette della Serie A erano i campionati stranieri trasmessi dalla vecchia Telemontecarlo. Chi, come me, è nato alla fine degli anni Ottanta, comprenderà quindi come sia stato facile sviluppare una confidenza quasi maggiore con la Liga spagnola che con il campionato di casa nostra.

Il mio primo Clásico arriva in coda a una lunga vacanza natalizia, nell'ultima notte di libertà concessa a un bambino di 7 anni che lotterà con ogni mezzo necessario per rimanere sveglio fino a tardi nell'illusione di poter ritardare l'inevitabile ritorno a scuola. È il 7 gennaio 1995 e al Santiago Bernabeu si affrontano due squadre con il morale agli antipodi. Il Real Madrid, dopo 15 partite, guida il campionato a pari merito con il Saragozza (!) ed è reduce da un 5-0 rifilato in trasferta al Valladolid. Di contro il Barcellona, campione di tutto nei quattro anni precedenti, è in leggero affanno, con tre punti di ritardo dai rivali in un campionato dove la vittoria ne vale ancora due e alle prese con un caso che sta destabilizzando lo spogliatoio.

È infatti da inizio stagione, o meglio dai giorni del ritiro estivo, da quando cioè Romario ha ripetutamente ritardato il ritorno in Spagna dopo la vittoria del Brasile ai Mondiali, che l'ambiente blaugrana è appeso agli umori del suo campione del Mondo. L'arrivo a Barcellona del presidente del Flamengo Kleber Leite non fa che alimentare le voci che vogliono Romario stufo dell'Europa, del Barcellona e di Johan Cruyff, il maestro di calcio e di vita che il Baixinho non ha mai chiesto e che sta rendendo la sua vita sulle ramblas sempre meno spensierata. L'operazione del Flamengo, che vede una cordata di sponsor e il Comune di Rio de Janeiro unire gli sforzi e dissanguarsi per strappare l'ultimo FIFA World Player a un top club europeo suona fantascientifica già all'epoca ma riesce comunque a scomodare lo stesso Cruyff che, pressato dalla stampa, getta acqua sul fuoco e annuncia l'attaccante brasiliano, autore fin lì di soli quattro goal in 12 partite, tra i titolari che scenderanno in campo al Bernabeu.

Nei minuti che precedono il fischio di inizio ci si accorge subito che qualcosa non quadra. Il Barça, che ritarda non poco il suo ingresso in campo, si dispone infatti in un insolito 4-5-1 e schiera un solo attaccante che guarda caso non è Romario. Il Real di Valdano, malgrado le assenze di Redondo e Michel, si mostra al contrario bello spregiudicato con Amavisca (nome che nelle mie orecchie risuona ancora pronunciato dalla voce metallica di Ilario Castagner) esterno aggiunto alle due punte di ruolo Raul e Zamorano.

Le formazioni (fonte: thehardtackle.com)

È un Clásico diverso da quello a cui siamo abituati oggi, lo si vede dai dettagli. Tanto per cominciare ci troviamo in un Bernabeu stracolmo dei 106.000 spettatori che poteva contenere prima delle ristrutturazioni dell'era Sanz e Perez. Le maglie indossate dalle due squadre, bellissime, si sottraggono ancora al duopolio Adidas-Nike che si instaurerà negli anni a venire e danno lustro a marchi oggi considerati di seconda fascia come Kappa, che veste un Barcellona ancora senza main sponsor, o praticamente defunti, come la Kelme che stampa le sue caratteristiche zampine viola sulla camiseta blanca del Real Madrid. Sui cartelloni a bordo campo c'è ampio spazio per aziende locali: i materassi Flex, il Gin Larios e per una nostalgicissima Kodak. I papelitos sparsi sul terreno di gioco donano infine un'atmosfera quasi sudamericana a un evento sportivo e culturale che appare più provinciale ed esotico rispetto alla patina di glamour che lo avvolge oggi.

Un Clásico più spagnolo e meno globalizzato che si apre con un Real arrembante che mette subito pressione alla difesa avversaria. Quando il Barcellona si affaccia dalla parte opposta del campo lo fa nel peggiore dei modi. Guardiola canna subito un passaggio in verticale, Hagi prova invece un tiro da distanza siderale che riesce a sorprendere il portiere Buyo solo per la sua bruttezza. Interrotto il primo vero possesso del Barcellona, il Real Madrid si presenta sulla tre quarti con Laudrup che, vinto un rimpallo dopo il primo tentativo di verticalizzazione andato male, riesce ad avanzare quasi al limite dell'area dove serve Raul. Il diciassettenne attaccante del Real, al suo primo Clásico, è marcato da Abelardo ma attira anche Ronald Koeman che lascia lo spazio libero per Zamorano che tira di prima intenzione sotto la traversa: 1-0 dopo cinque minuti.

Gli “olè” del pubblico scandiscono i passaggi della squadra di casa che con Luis Enrique si procura anche un rigore non visto dall'arbitro. Una cosa che colpisce immediatamente lo spettatore attuale, educato a dosi massicce di “guardiolismo” e al culto del possesso palla, è la verticalità esasperata del gioco, ancora più sorprendente quando applicato da squadre come Real Madrid e soprattutto Barcellona. Più volte vediamo le due squadre impostare il gioco con lunghi lanci da dietro in direzione delle punte e giocatori dalle indiscusse qualità tecniche come Laudrup, Hagi, lo stesso Guardiola, forzare passaggi verticali che spesso e volentieri finiscono per innescare le ripartenze avversarie. Un gioco dove una manovra scarna è controbilanciata dalle interpretazioni barocche dei singoli. È così che possiamo ammirare in pochi minuti un dribbling di Hagi, che per un istante fa vibrare gli abbacchiati tifosi blaugrana, o una lunghissima discesa palla al piede di Sanchis che oggi non chiederemmo neanche a Messi.

Luis Enrique e Sergi.

Al 21', in un momento in cui il Barça aveva ripreso coscienza, arriva tra capo e collo il raddoppio di Zamorano. La difesa blaugrana è perfettamente in linea quando, da sinistra, Amavisca alza un pallone verso il centro dell'area. Peccato che che in quel punto ci sia solo l'attaccante cileno che, a tu per tu con il portiere, non sbaglia.

Avanti di due, gli uomini di Valdano impostano la velocità di crociera lasciando sfogare gli avversari sulla tre quarti. In mezzo a quello che il telecronista definisce «el primero ataque de un cierto criterio» del Barcellona, il Real va per due volte vicino al goal con Raul e Zamorano, entrambi azionati da Michael Laudrup. Il danese, che dopo sei anni passati a Barcellona, in estate era stato sacrificato sull'altare del limite dei tre stranieri schierabili imposto dal regolamento, non aveva digerito le scelte della società che aveva acquistato Hagi e trattenuto l'insofferente Romario. Così, quando da Madrid arriva la chiamata di Valdano e del suo assistente, il maestro Angel Cappa, vera eminenza grigia del progetto tecnico madridista, Laudrup non si fa scrupoli a commettere il peggiore dei tradimenti. Al suo primo Clásico nei panni di traditore, è il padrone assoluto del centrocampo. Il suo ex capitano al Barcellona, José Mari Bakero, gli lascia enormi spazi e i falli di Guardiola gli valgono diversi calci di punizione.

A sei minuti dalla fine del primo tempo Hagi è graziato dall'arbitro dopo un fallaccio a centrocampo su Hierro. Dalla punizione che segue parte un traversone che Zamorano intercetta e allunga verso il centro dell'area dove si sta dirigendo Laudrup. Il danese è in netto ritardo ma la scandalosa protezione di palla di Bakero favorisce il suo ritorno. Conquistato il possesso Laudrup mette in mezzo per Zamorano che firma la sua tripletta personale. 

"Bam Bam" ed "El Ferrari".

Ormai alle corde, il Barça fatica a trattenere i nervi come dimostra la prepotenza con cui Koeman entra di spalla sullo sterno di Luis Milla, senza che per questo gli venga sventolato in faccia alcun cartellino giallo. Unico attaccante schierato da Cruyff, fino allo scadere nessuno si accorge che in campo c'è anche Stoichkov. Pallone d'Oro da meno di un mese, il capocannonniere di USA 94 non è praticamente mai stato chiamato in causa. Decide così di dare un senso alla sua serata provando a spezzare il ginocchio destro di Quique con un pestone da Tribunale dell'Aia. La nonchalance con la quale tenta di rimettere la palla in gioco come se nulla fosse accaduto non lo salva dal rosso diretto e dai fischi del pubblico. Si sfuma così verso l'intervallo con la polizia costretta a usare gli scudi per proteggere il bulgaro dagli oggetti che cominciano a piovere dalla tribuna

Se in casa blaugrana è il caos, i giocatori del Real raggiungono lo spogliatoio camminando a un metro da terra talmente è stata ampia la superiorità mostrata nei primi 45 minuti. Forti di tre goal di vantaggio e con un tempo a disposizione, Zamorano dirà che fu lì che nella testa di tutti si fece strada l'idea concreta di restituire ai rivali di sempre la manita patita al Camp Nou esattamente un anno prima. La sera del 5-0 che i catalani rifilarono ai blancos, in quella che rimarrà nella memoria come una delle maggiori dimostrazioni di forza del Barcellona di Cruyff, Romario segnò tre goal e Laudrup entrò nel secondo tempo al posto di Stoichkov. 364 giorni dopo il brasiliano ha già un piede sulla scaletta dell'aereo che lo riporterà a Rio e subentra a Bakero nel mezzo di una partita già compromessa mentre Laudrup ha il Bernabeu ai suoi piedi.

Laudrup scarta anche Romario.

È proprio il danese ad aprire il secondo tempo con due dribbling che fanno fuori Nadal, entrato al posto di Guardiola, e Koeman, prima che Raul getti tutto al vento cercando inutilmente un contatto in area con Albert Ferrer. È Laudrup che ricorda Modric o è Modric che assomiglia a Laudrup? Nei venti minuti successivi non succede praticamente nulla: il Barça vive delle folate offensive di Sergi, l'unico a salvarsi dei suoi, e degli spunti di Hagi, volenteroso ma decisamente in serata no. Xabi Eskurza, la mossa geniale che avrebbe dovuto sorprendere Valdano, ha toccato sì e no tre palloni. Del gioco posizionale e del controllo del campo tanto predicato da Cruyff non c'è traccia. Romario non va oltre a una punizione conquistata a centrocampo mentre i telecronisti gli leggono il pensiero quando parlano delle spiagge e delle caipirinha che lo aspettano in Brasile. Nel Real Madrid Valdano fa uscire Raul per Martin Vazquez che al 68' aggira Abelardo, penetra in area e serve nel mezzo Zamorano. Il tiro di “Bam Bam” rimbalza sul palo e finisce tra i piedi di Luis Enrique che, non senza libidine, segna alla squadra di cui diventerà capitano e allenatore. Passa un minuto, Zamorano infila Abelardo e Sergi e gira l'assist per Amavisca, solo a porta vuota. Koeman alza il braccio ad invocare un fuorigioco che non c'è mentre il Real completa la revancha. 5-0, un anno dopo. «El Dream Team se ha acabado», sentenzia in telecronaca Tomas Roncero, una specie di Pellegatti madrileno, che constata come sei mesi dopo il 4-0 subito dal Milan di Capello nella finale di Champions League ad Atene, questa serata segni la fine definitiva del ciclo della squadra di Cruyff.

Le pagelle de El Mundo Deportivo.
 
A dodici minuti dalla fine Valdano concede la passerella finale a Zamorano. Tre goal, due assist e 100.000 persone in piedi per quello che in estate era il primo sulla lista dei partenti. Non correva buon sangue infatti con Jorge Valdano, sbarcato a Madrid dopo i successi di Tenerife con la ferma volontà di sostituire il cileno con Eric Cantona. Come racconta lo stesso Zamorano a cambiare le cose fu una partitella di allenamento giocata in Svizzera durante il ritiro precampionato. Zamorano tirò una gomitata a Valdano, in campo per sostituire un giocatore infortunato e sentendosi chiedere se si allenasse così solo quando aveva di fronte l'allenatore che odiava, “Bam Bam” rispose seccamente «Io mi alleno sempre così». Da quel momento Valdano ebbe chiaro chi aveva di fronte. Cinque mesi dopo rende omaggio a un attaccante da 17 goal in 16 partite che ha appena scritto una pagina di “madridismo”.

Le prime pagine di Marca e El Mundo Deportivo.

 «Un juguete», un giocattolo, titola l'indomani El Mundo Deportivo, il principale quotidiano sportivo della Catalogna. Il giocattolo rotto è il Barcellona di Cruyff, quell'orologio di precisione che il genio olandese aveva assemblato nel corso di sei anni di lavoro maniacale imponendo all'Europa un sistema di gioco che divenne modello e che da trent'anni continua ad ispirare la filosofia del club. Riportato al Camp Nou nel 1988 da una dirigenza alla disperata ricerca di qualcuno che arginasse un ammutinamento che aveva dimezzato la rosa, ai microfoni dei giornalisti Johan Cruyff non promette titoli ma spettacolo. Sei anni e una decina di coppe dopo, più che riconoscere i meriti dell'avversario, Cruyff punta il dito contro la sua squadra, colpevole di avere smarrito la motivazione e l'entusiasmo: «ya que así no se puede jugar». A rimarcare come la differenza tra le due squadre sia stata prima di tutto mentale ci pensa Jorge Valdano che identifica nell'«ansia di vendetta sportiva» derivante dall'umiliazione subita l'anno precedente l'origine della determinazione con cui i suoi hanno perseguito il 5-0 anche quando il punteggio avrebbe consentito di rifiatare. Fu un Clásico non comune, un incontro che segnò la fine del “Dream Team” di Cruyff senza però inaugurare un vero e proprio ciclo del Real Madrid. I blancos vinceranno la Liga, Zamorano finirà la sua migliore stagione in carriera con 28 goal e il titolo di Pichichi ma il sesto posto nel campionato successivo non riuscirà a evitare il licenziamento di Valdano e l'arrivo di Fabio Capello.

Intanto su TMC scorrono i titoli di coda, Zamorano si porta a casa la maglia, Laudrup scherza negli spogliatoi con Angel Cappa al quale confida: «Oggi ho vinto 10-0», ed io mi sveglio sul divano realizzando di avere dormito per quasi tutta la partita.

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venerdì 3 aprile 2020

Remuntada al quarantena bis

Il coronavirus ci ha lasciati orfani del calcio e così, senza più dirette Sky e Dazn, il nostro palinsesto sportivo si popola di ricordi. Cedo quindi la linea al Velodrome per la rimonta più hardcore di cui sentirete parlare quest'anno.


Quello che sta rendendo veramente provanti questi giorni di quarantena passati a colpi di decreto e con un regime poliziesco che sta rapidamente prendendo forma sotto i nostri occhi, ne converrete, è soprattutto l'assenza del calcio, bene di prima necessità di cui l'uomo italico è stato privato minandone la stabilità psichica e innescando un progressivo processo di erosione del tessuto economico e sociale all'evidente scopo di provocare l'implosione del pilastro debole dell'Unione Europea. E fin qui ci siamo. In questo contesto di deprivazione però ci viene per fortuna in soccorso il canale Youtube dell'Olympique Marsiglia che da qualche giorno, con l'accattivante hashtag "StayAthOMe", allieta l'isolamento dei suoi sostenitori con dirette streaming in cui ripropone le partite più memorabili del club bianco-azzurro.

I cookies del browser, si sa, sono lo specchio dell'anima. Sono loro infatti a leggermi dentro quando, dopo aver consumato tutta la letteratura scientifica sul coronavirus contenuta nell'archivio di Byoblu, tra il baffo di Giulietto Chiesa e la maschera FFP3 di Rosario Marcianò, mi fanno spuntare tra i video suggeriti Marsiglia-Montpellier 5-4. L'anomalia del punteggio cattura il mio sguardo distraendomi per un attimo dai tempi di permanenza del virus sulle superfici. Non ho un cazzo da fare così bastano nove goal e una foto d'epoca di Christophe Dugarry nel thumbnail a convincermi. Mi appresto a iniziare la visione sperando vivamente che si tratti di una rimonta. Sarei proprio curioso di assistere a una rimonta netta, da 0-4 a 5-4, visto che le rimonte maggiori di cui ho memoria si fermano a un Lecce-Milan 3-4 e all'incredibile 7-5 che l'Arsenal inflisse al Reading in una vecchia edizione della Coppa di Lega ma terminato ai supplementari.

Schiaccio play e mi trovo in una serata di fine estate, è il 22 agosto 1998, nello stesso stadio che poco più di due mesi prima aveva visto esordire i bleus nel loro Mondiale. Le formazioni che scendono in campo al Velodrome schierano nomi bellissimi. L'OM si presenta con Porato tra i pali, in difesa Blondeau, Domoraud, sì, proprio lui, Laurent Blanc, uno dei tanti ex della serata e un giovanissimo William Gallas. A centrocampo ci sono Eric Roy, l'ex Parma Daniel Bravo, Jocelyn Gourvennec e Robert Pires. Davanti, nel più piatto dei 4-4-2 anni Novanta, la coppia Ravanelli-Maurice. Nonostante i campioni del mondo giochino quasi tutti in Italia, quella sera ne troviamo ben tre, oltre a Blanc e Pires infatti c'è anche Christophe Dugarry che, chi se lo ricorda, capirà bene perché sieda in panchina. Anche il Montpellier presenta qualche nome nostalgico: il giovane Laurent Robert, che vedremo anni dopo al Newcastle, lo specialista dei calci piazzati Franck Sauzée, pilasto del Marsiglia campione d'Europa nel 1993, l'esterno Manuel Dos Santos, che di lì a qualche anno si trasferirà proprio a Marsiglia e il mio idolo, Ibrahima Bakayoko, o meglio "Buggayoko" per quanto era "buggato" nei FIFA di quegli anni. In Italia vedremo il suo fantasma aggirarsi a Livorno qualche stagione più tardi. Ad arbitrare l'incontro, manco a dirlo in questi giorni di pandemia, il Sig. Alain Sars! 


Inizia la partita e i padroni di casa conducono il gioco. Blanc e Bravo, i più tecnici in mezzo al campo, impostano, con il primo che si sgancia sovente in avanti esponendo la difesa alle penetrazioni di Robert e Bakayoko. I due attaccanti paillades sono gli osservati speciali della serata, per loro infatti è arrivato un emissario del West Ham che siede in tribuna. Il Montpellier, che invece sembra avviarsi a una partita di rimessa, da provinciale in trasferta, dopo quattro minuti trova il goal con Bakayoko che, servito da Gravelaine, parte in fuorigioco, dubbio. Sono i padroni di casa a mantenere l'iniziativa che il più delle volte però non oltrepassa il centrocampo, costringendo gli attaccanti a decentrarsi e a scendere in cerca del pallone. Il Montpellier prende campo, soprattutto sulla sinistra, dove Roy e Blondeau faticano a contenere la velocità di Dos Santos e Robert. Da una rimessa dal fondo, al 14', la palla finisce tra i piedi di Pascal Fugier che pesca un liberissimo Gravelaine, completamente dimenticato da Bravo. Gli spazi offerti dalla squadra allenata da Rolland Courbis sono enormi, forse irripetibili ai nostri giorni, sia quelli verticali tra i reparti che quelli orizzontali tra i difensori. È quindi un gioco da ragazzi per Bakayoko infilarvicisi e ricevere il delizioso scavetto di Gravelaine: 1-0 per gli ospiti.

Il Montpellier comincia a muovere la palla con confidenza, spostando da una parte e dell'altra del campo i giocatori bianco-azzurri che cominciano a sentire nelle orecchie i fischi del Velodrome. Quattro minuti dopo il goal di Bakayoko, un lancio lungo di un difensore trova ancora una volta Robert a sinistra che, privo di marcatori, è anche tenuto in gioco da una linea difensiva disposta come shanghai davanti all'area di rigore. Braccato da Roy, Robert ha lo specchio della porta praticamente chiuso ma riesce a indovinare l'unico pertugio tra il piede del suo inseguitore e quello del portiere.

Sul 2-0 il Montpellier sa di potersi limitare a gestire la partita e ad ogni attacco subito corrisponde un contropiede che minaccia la retroguardia dell'OM. Su un affondo di Gravelaine, Patrick Blondeau si becca un giallo. Testa matta e faccia da duro per il terzino sinistro marsigliese che al suo attivo ha due ammonizioni nelle tre partite fin lì disputate e una figliola barely legal che fa la modella. Dalla conseguente punizione Franck Sauzée lascia partire un destro a giro che rimbalza davanti a un non impeccabile Porato e si accomoda alla sua sinistra per il più classico dei goal dell'ex.

Sotto di tre reti i padroni di casa hanno un moto di orgoglio e mettono insieme tre azioni pericolose nel giro di pochi minuti. Una di queste termina anche con un goal che però un guardalinee con le sembianze di Salvini si sente in dovere di annullare per un presunto fuorigioco di Ravanelli. Risponde subito Bakayoko, il cui tiro colpisce l'esterno della rete. Il ritmo è sostenuto, considerato anche che ci troviamo a fine agosto, e le fulimnee verticalizzazioni nelle quali si esplicava lo stile di gioco dell'epoca regala uno spettacolo piacevole anche se non raffinatissimo. Nel suo momento migliore il Marsiglia viene come al solito punito da un contropiede che parte da un intercetto di un difensore che consegna la palla ai sapienti piedi di Gravelaine. Già lanciato e pronto a ricevere c'è Bakayoko che brucia ancora una volta Domoraud e batte Porato per la quarta volta in 35 minuti. Doppietta di Bakayoko ma soprattutto terzo assist del giocatore che da mezz'ora mi sta rubando lo sguardo. 

Conoscevo Xavier Gravelaine solo di nome, lontano ricordo di qualche partita giocata a FIFA 98 proprio con il Marsiglia, squadra dove aveva passato le due stagioni precedenti. Scrivere questo articolo mi ha permesso di dargli un volto, liberandolo dalla coltre di pixel che lo aveva tenuto prigioniero per oltre vent'anni e di scoprire un calciatore di cui è stato facile innamorarmi. Talentuoso trequartista mancino, anche se ha intravisto il calcio che conta con le maglie più prestigiose di Francia, compresa quella della Nazionale, Gravelaine dà il meglio di sé in provincia, a Caen in particolare, dove conquista una qualificazione europea e tornerà a più riprese durante e dopo la sua carriera di calciatore. Un talento incompiuto di quelli che piacciono a me. 


«Ne prendi uno, poi due e tutto diventa più duro. È in quei momenti che provi maggiormente la soluzione individuale ed è quello che ci ha reso più disorganizzati. Lì abbiamo smesso di giocare. Da qui anche il fatto che siamo arrivati alla pausa sotto di quattro goal e completamente demoralizzati». Sono le parole di Eric Roy a proposito dello spettacolo ignobile offerto dalla propria squadra di fronte al quale il pubblico del Velodrome si abbandona a fischi di disappunto che si fanno impietosi quando Blondeau sbaglia una rimessa laterale e concede il cambio palla agli avversari. Alla fine del primo tempo la struttura particolare dello stadio marsigliese, con il tunnel che porta agli spogliatoi situato in un angolo del terreno di gioco, sotto la curva, allunga l'agonia di una squadra che non sembra più in grado di intendere e volere. Sempre da quell'angolo di campo però, un quarto d'ora dopo, prende forma la follia che vedremo compiersi nel secondo tempo. Il primo indizio è il siparietto che al rientro in campo mettono in piedi l'allenatore dell'OM Rolland Courbis e il presidente del Montpellier Louis Nicollin. Courbis è un rude omaccione del sud, marsigliese doc, con un torbido passato legato allo scandalo della cassa nera del Tolone di qualche anno prima. Nicollin... beh se volete sapere che soggetto era leggete qui, non rimarrete delusi. Vediamo quindi Courbis avvicinarsi a Nicollin e dirgli: «Credo che che vinceremo 5-4!». Il presidente del Montpellier ribatte con eleganza: «Ça c'est de couilles!», «questo è avere le palle!» in quello che è diventato un instant classic della storia del calcio francese.


«Ad ogni attacco segnavamo» ricorda Pascal Fugier, proprio lui che in apertura di ripresa ha l'occasione di firmare il quinto goal. Se non si fosse sbilanciato in avanti dopo il sombrero fatto a Blanc, permettendo a Porato di intervenire, oggi staremmo ricordando una partita altrettanto indimenticabile per Marsiglia, ma per i motivi opposti. «Se potessi cambiare qualcosa di quella partita sarebbe l'occasione fallita da Pascal» dice il centrocampista paillade Philippe Delaye, subentrato nel frattempo a Bakayoko. Dice bene perché di lì a poco succederà l'impossibile. È il 60', le telecamere riprendono i tifosi che si avviano verso l'uscita dello stadio, la notte è ormai scesa su Marsiglia e lo spesso poliestere della maglia numero 21 con lo sponsor Ericsson brilla alla luce dei riflettori. Courbis dirà che era tutto programmato ma l'ingresso di Christophe Dugarry sembra tanto la mossa della disperazione a cui l'allenatore marsigliese si affida in cerca di un miracolo al quale è rimasto l'unico a credere. Il tempo di infilarsi il cerchietto di plastica, quando ancora si poteva, e l'ex attaccante di Milan e Barcellona si vede recapitare da Blanc un pallone lungo sulla destra. Giunto sul fondo mette in mezzo per Maurice che azzecca il colpo di testa e segna. Passano due minuti, su calcio d'angolo di Pires, Dugarry svetta in mezzo all'area e batte nuovamente l'ultraquarantenne portiere del Montpellier Bruno Martini.

Dugarry ridona spirito al Velodrome mentre cominciano a vedersi i primi fumogeni. Alla ripresa del gioco si intuisce chiaramente come i giocatori di casa siano sospinti da una forza invisibile che li fa pattinare laddove i passi degli avversari si fanno sempre più pesanti. Domoraud, e non potrebbe essere altrimenti, non è più lui quando scatta sulla destra, fa un tunnel a un difensore e serve Maurice in area. I fischi diventano cori quando Blondeau interviene in scivolata su Robert e gli toglie la palla per la prima volta in tutta la partita. La pressione marsigliese si fa insostenibile e Dugarry gioca a tutto campo. È il primo difensore che fa ripartire l'azione dopo un calcio d'angolo del Montpellier, il rifinitore che detta l'ultimo passaggio a Titi Camara, che nel frattempo ha sostituito l'inutile Gouvrennec, ed è il centravanti di sfondamento che dal conseguente calcio d'angolo colpisce di testa e realizza il terzo goal. Bidone tra i meno rimpianti della Serie A, convocato ripetutamente e incomprensibilmente per anni in Nazionale, dove contendeva il posto ad Henry e Trezeguet,  Dugarry fa la partita della vita, due anni dopo la doppietta nel 3-0 con cui il Bordeaux ribaltò la sconfitta subita dal Milan nell'andata dei quarti di finale di Coppa UEFA e che presentò lui e Zidane alla ribalta europea.


I minuti che seguono sono quelli di una partita ai giardinetti dove tutti corrono dietro al pallone senza la minima organizzazione di gioco. Courbis gioca ormai con quattro attaccanti, Maurice, Ravanelli, Camara e Dugarry, ai quali talvolta si aggiunge Pires a destra. Lo schema ricorrente è: lancio lungo di Blanc e chi la prende la prende. Il Montpellier invece si preoccupa solo di tenere la palla il più lontano possibile dall'area di rigore. A cinque minuti dalla fine un disimpegno maldestro di un difensore spedisce la palla in tribuna. Ne segue una rimessa, riceve Pires che serve con una palla alta Ravanelli la cui sponda libera un corridoio dentro l'area per Roy che, solo davanti al portiere, scaraventa in rete una borda che fa esplodere il Velodrome. E sono quattro. «Quando ho visto Robert Pires servire Fabrizio Ravanelli sapevo che l'avrebbe deviata con la testa e che avrei segnato ancora prima di muovermi. Era come se avessi già visto l'azione. E con il sostegno dei tifosi sapevamo che saremmo andati a caccia del quinto». Eric Roy descrive così i poteri paranormali che il pubblico di Marsiglia era in grado di donare ai propri giocatori. «Quell'atmosfera... è lì che capii il vero senso dell'espressione "dodicesimo uomo". In quel momento abbiamo sentito che la partita ci era scappata di mano» ribadisce Delaye.

Quando al 90' Pires viene atterrato in area da Serredszum, suo compagno l'anno prima a Metz, lo stadio esulta come se avesse già assistito al sorpasso. Pires rimane immobile a terra, con lo sguardo fisso, mentre un compagno corre ad abbracciarlo. È come se si stesse per compiere quello che tutti in fondo sapevano sarebbe successo. Dal dischetto Blanc dà corpo alla profezia autoavverrante del Velodrome e realizza il 5-4, ma a quel punto non c'è più neanche la sorpresa di un'impresa che mi piace pensare sia stata così ardentemente voluta da un popolo da renderla inevitabile.

Al fischio finale sembra di aver assistito a due partite. Si esce spompati ma anche esaltati da un'esperienza che per chi l'ha vissuta deve essere stata inebriante. Tornati nello spogliatoio, con l'adrenalina ancora in circolo, Courbis dice ai suoi giocatori: «Questa partita non è caduta dal cielo, ce la ricorderemo alla fine della stagione, quando saremo campioni». Alla fine della stagione l'OM capitolerà all'ultimo minuto dell'ultima giornata, dopo nove mesi di un duello punto a punto con il Bordeaux di Micoud, Laslandes e Wiltord, che finirà il campionato da capocannoniere. L'OM si fermerà a un passo anche dal traguardo europeo dopo una semifinale rubacchiata con il Bologna (con rissa finale e Dugarry che stende Jimmy Maini) e un 3-0 senza appello subito dal Parma di Malesani nella finale di Coppa UEFA di Mosca, quella dove Cannavaro faceva finta (faceva finta?) di doparsi in albergo. Dugarry finirà la stagione con quattro goal, due dei quali segnati nell'incredibile partita del Velodrome, una partita che, per usare le parole di Courbis, non stupisce sia stata giocata a Marsiglia.

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venerdì 27 dicembre 2019

Necrologio 2019

Non c'è che dire, quest'anno me la sono presa comoda. Con le forze residue lasciatemi dal misero post pubblicato in questo 2019, rieccomi a pagare il giusto tributo a chi ha deciso di lasciare il rettangolo verde e fare ufficialmente ingresso nel nostro immaginario nostalgico.

Xavi
39 anni
C'erano Giovanni e Phillip Cocu al suo fianco la sera del 18 agosto 1998, quando Louis Van Gaal scelse il diciottenne Xavi Hernandez come regista di centrocampo nell'andata della finale di Supercoppa contro il Mallorca di Hector Cuper. Ad arbitrare l'incontro Antonio Lopez Nieto, praticamente un'era geologica fa. Basteranno sedici minuti al giovane Xavi per segnare il goal del momentaneo e inutile vantaggio blaugrana, i vent'anni successivi li impiegherà invece per entrare nella storia del calcio. Pareva aver smesso da molto più tempo, almeno dal 2015, anno in cui, messa in bacheca la quarta Coppa dei Campioni in carriera, ha lasciato la natia Catalogna per guadagnarsi gli ultimi meritati milioni tra le dune del deserto. L'ultimo incontro ufficiale però risale solo al maggio scorso, quando con la maglia dell'Al Sadd, che ha anche guidato in veste di allenatore nel recente Mondiale per Club, ha tagliato il traguardo delle 1133 partite tra i professionisti. Dotato di una visione di gioco e di un tocco fuori dal comune, per efficacia e palmares è forse il giocatore più forte degli ultimi 25 anni, primato che solo la posizione in campo occupata da Messi e Ronaldo hanno potuto togliergli. Personalmente lo associerò sempre al coetaneo Gabri, suo compagno ai tempi di Van Gaal e nelle giovanili spagnole. L'avvento di Guardiola sulla panchina del Barça segnerà lo snodo di due carriere che dalla Masia sembravano avere seguito strade parallele: nell'inestricabile trama di passaggi in cui  si esplicherà la rivoluzione del tecnico catalano Xavi troverà il suo habitat naturale, compiendo quel salto di qualità nel quale, a 26 anni, non tutti credevano più. Gabri invece preferirà migrare verso una scuola calcista altettanto nobile come l'Ajax ma con meno fortuna, infatti oggi allena la Nazionale di Andorra.

Andrea Barzagli
38 anni
Praticamente sono due le carriere vissute da Andrea Barzagli nei suoi vent'anni di calcio professionistico. È lui a formare con Cesare Bovo la coppia difensiva dell'Under 21 di Gentile che in Germania conquista il titolo europeo di categoria. È lui l'ultimo centrale di ruolo rimasto a Lippi nell'ottavo di finale contro l'Australia dopo l'infortunio di Nesta e l'esplusione di Materazzi nel Mondiale tedesco del 2006. Da campione del mondo prosegue la sua ascesa con il Palermo di cui diventa capitano. Nel 2008 arriva la chiamata del Wolfsburg, dove approda insieme al compagno di avventure Zaccardo. Sempre in Germania Andrea coglie la sua terza grande soddifazione, lo Schale vinto alla sua prima stagione con i biancoverdi. È qui però che, a 29 anni, la carriera di Barzagli sembra avviarsi su un binario morto. Le presenze stagionali diminuiscono bruscamente e la Nazionale appare un miraggio sempre più lontano. L'Italia lo dimentica ma Marotta, da poco approdato alla Juventus e alle prese con una stagione a dir poco disastrosa, ha ben presente le qualità del difensore toscano e ancora di più il suo valore di mercato, pressoché azzeratosi nel corso dell'anno precedente. Barzagli viene acquistato per 300.000 euro da una Juve in lotta per la qualificazione in Europa League. L'esordio è una squallida sconfitta per 2-1 in casa contro il Palermo, il finale di stagione è un settimo posto che gli chiude le porte dell'Europa ma è anche la tabula rasa da cui Antonio Conte inizia a riscrivere la storia bianconera e dove Barzagli vede fiorire la sua seconda giovinezza. Nella nuova difesa a tre disegnata da Conte Barzagli cementa un'intesa con Chiellini e Bonucci che si riproporrà anche in Nazionale, dove Andrea fa ritorno nel 2011, all'alba del ciclo bianconero che lo porterà, otto anni dopo a lasciare il calcio con all'attivo 8 Scudetti, 4 Coppe Italia, 4 Supercoppe Italiane, due finali di Champions League, due Europei e un secondo Mondiale disputato,  prima di chiudere con le lacrime di Bordeaux e con lo spareggio di San Siro che è costato all'Italia la qualificazione ai Mondiali in Russia.

Claudio Marchisio
33 anni
Inserirlo in questa rubrica così presto fa uno strano effetto, lo faccio con un po' della tristezza che deve aver accompagnato Claudio nella decisione di lasciare il calcio a 33 anni. Il "Principino" è stato uno dei rari casi di juventinità che, diagnosticata nei primi anni di vita, sia giunta a piena maturazione. Pensateci: non sono troppi i giovani del vivaio juventino che dalla trafila delle giovanili sono riusciti a raggiungere i massimi traguardi vestendo la maglia bianconera, diventandone simbolo e capitano per giunta! Non siamo mica a Roma dopotutto. Complice del curioso caso di Claudio Marchisio la retrocessione scaturita da Calciopoli che obbliga il neo-tecnico Deschamps a puntare su giovani del vivaio come De Ceglie, Giovinco e Marchisio, subito tra i titolari dopo gli assaggi di prima squadra concessisgli da Capello. Dopo una promozione annunciata ma vissuta comunque da protagonista, Marchisio parte insieme all'amico Giovinco per l'anno di apprendistato a Empoli dove Gigi Cagni e Alberto Malesani faranno le veci di Virgilio nel suo prima anno di Serie A. La retrocessione non scoraggia la dirigenza juventina che lo riporta a casa per farne il nuovo Tardelli. Ranieri, Ferrara, Del Neri, nutrono tutti stima per quel ragazzo così serio e attaccato alla maglia che finisce inevitabilmente per conquistare anche le fiducia di Lippi che lo convoca per il Mondiale in Sudafrica. Tra le macerie che Conte trova al suo arrivo, Marchisio è uno dei pochi pilastri sul quale poter costruire il suo progetto tutto movimento e velocità. Insieme a Vidal costituisce il cordone di sicurezza entro cui il genio di Pirlo può esprimersi al meglio, al contempo però non disdegna gli ineserimenti offensivi, eredità dei suoi esordi da attaccante ed esaltati dal gioco di Conte. La finale dell'Europeo 2012 certifica come ci si trovi davanti a uno dei centrocampisti più forti d'Europa. Il suo regno al centro dello schieramento e del progetto Juve, a dispetto del titolo nobiliare affibbiatogli, comincia a scricchiolare già l'anno seguente, quando a Torino atterra un ragazzone francese che Marotta è riuscito a prendere a parametro zero dal Manchester United: un certo Paul Pogba. Gl infortuni sempre più frequenti di Marchisio vanno di pari passo con la crescita progressiva di Pogba che già nella seconda parte della sua prima stagione convince Conte a schierarlo con regolarità. L'arrivo di Allegri non inverte la rotta e Marchisio è sempre più considerato il 12° uomo bianconero, ruolo che egli veste con la consueta eleganza. Messo alla porta dal corso degli eventi, un infortunio di Pogba e la necessità di fare rifiatare l'attempato Pirlo permettono a Marchisio di rientrare dalla finestra e cimentarsi con nuove soluzioni tattiche che gli fanno vestire i panni una volta del regista arretrato, un'altra del trequartista. È nella stagione della sua prima finale di Champions che Marchisio dimostra ancora di più la sua grandezza. Punto fermo di un'Italia che il nuovo CT Conte vuole plasmare a immagine e somiglianza della sua Juve, solo un infortunio al ginocchio nega a Marchisio la gioia di prendere parte alla sorprendente spedizione azzurra ad Euro 2016. Gli infortuni però si sommano e la concorrenza nel centrocampo della Juve globale di Andrea Agnelli erodono gradualmente lo spazio concesso al "Principino" che, valigie in mano, sulla soglia della porta di quella che era stata per 25 anni la sua casa, si leva un sassolino dalla scarpa gettando luce sul clima creatosi dopo l'arrivo di CR7 a Torino. Un anno allo Zenit, l'ennesimo infortunio e poi un ritiro del quale avrei preferito non scrivere così presto.

Samuel Eto'o
38 anni
«Sei il miglior giocatore africano di sempre?» «È un fatto. Non c'è bisogno che lo dica». Questo è Samuel Eto'o e questo è ciò che pensa di se stesso. Un anno dopo il passo d'addio di quella che per un decennio è stata la sua nemesi, Didier Drogba, anche il camerunense dice basta. Lo fa dopo quattro anni passati nell'oscurità, nelle retrovie della Süperlig turca e del campionato qatariota, anni nei quali oltre a continuare a segnare, sembra abbia preparato il suo avvenire. Allenatore? Lo ha già fatto all'Antalyaspor, alternandosi dentro e fuori dal campo. Dirigente sportivo? Malgrado la riluttanza a gettarsi nell'agone politico, non ha fatto mancare il suo peso nelle recenti elezioni per la presidenza della Fecafoot, la federazione camerunense, e il nuovo presidente della CAF Ahmad Ahmad lo ha richiesto come collaboratore insieme a Drogba. Imprenditore? Eto'o è già azionista di Betoo, piattaforma di scommesse Made in Africa e si appresta a prendere la strada di Harvard, dove seguirà un corso di economia e management. Infine c'è l'opinionista. Non il semplice commentatore sportivo, un abito troppo stretto per la sua debordante personalità, ma un opinion leader nel senso sociologico del termine, capace di accendere i riflettori su questo o quel tema come ha fatto a proposito della recente assegnazione del Pallone d'Oro, ancora una volta ad appannaggio di Messi e a discapito di giocatori come Mané e Salah, i quali sconterebbero ancora l'antico pregiudizio verso i calciatori africani. Eto'o si è ritirato da poco più di tre mesi ma non ce ne siamo neanche accorti.

Petr Cech 
37 anni
Se ne va uno dei portieri, insieme a Buffon e Casillas, che a turno si sono contesi lo scettro di migliore interprete del ruolo nel primo decennio di questo millennio. A farlo è curiosamente il più giovane dei tre, il trentasettenne Petr Cech, l'uomo  che Mourinho e Abramovich scelsero per mettere in sicurezza il loro visionario progetto di scalata all'Europa portato rocambolescamente a compimento da Roberto Di Matteo nel 2012. Cech è stato per tutti il portiere del Chelsea con il caschetto, quello che scelse di indossare in seguito a un infortunio occorso nel 2007, ma per me è soprattutto il gigante che ipnotizza gli avversari durante i rigori della finale degli Europei Under 21 che la Repubblica Ceca vince contro la Francia nel 2002. Da lì ebbe inizio la carriera da predestinato profetizzata da un vecchio Guerin Sportivo e che oggi non ha più come sfondo il verde del campo da calcio ma il bianco del ghiaccio. Cech infatti non ha tolto guanti e casco, anzi, ha imbracciato una mazza da hockey e oggi difende la porta di una squadra inglese di seconda divisione.

Wesley Sneijder
35 anni
L'Olanda conta ad oggi sei Palloni d'Oro, Cruyff e Van Basten infatti ne hanno alzati tre a testa, l'ultimo dei quali nel 1992 eppure... eppure da qualche parte, ne sono certo, Lionel Messi conserva il settimo di questi Palloni d'Oro (se non l'ottavo, un saluto a Virgil Van Dijk), quello che avrebbe potuto essere assegnato a Wesley Sneijder nel 2010. Quell'anno il centrocampista olandese fece vedere tutto quello che gli istruttori dell'Ajax e i dirigenti del Real Madrid che lo acquistarono tre anni prima avevano pensato fosse in grado da fare. 41 partite e 8 goal non sono numeri sufficienti a spiegare il suo peso nella conquista del Triplete, apice di una carriera esauritasi troppo presto.

Arjen Robben
35 anni
Un giocatore iconico, non tanto nell'immagine quanto nei movimenti. La corsa ingobbita dalla destra, il rientare sul sinistro per scagliare i suoi potentissimi tiri dalla distanza hanno fatto epoca oltre che scuola, anticipando gli esterni a piedi inveriti che imperversano oggi sui campi di tutta Europa. A dispetto delle sembianze da cinquantenne, per me Robben è la giovane promessa del PSV vista ai recenti Europei... del 2004. L'impressione destata dall'esterno olandese ha convinto il nuovo presidente del Chelsea, il magnate russo Roman Abramovich, ad acquistarlo insieme al portiere Cech. Il nuovo tecnico José Mourinho, fresco di Champions con il Porto, si trova così a guidare una squadra che ha tutte le carte in regola per insidiare i campioni dell'Arsenal e i favoriti di sempre dello United. Le sue movenze ricordano Alessio Cerci.

Robin Van Persie
36 anni
L'ennesima ferita di un'emorragia nostalgica che negli ultimi tre anni ha privato l'Olanda di Kuyt, Van Der Vaart, Sneijder, Robben e Van Persie. Quasi 200 partite e 100 goal: questi i numeri di quello che dalle parti di North London era considerato l'erede naturale di Dennis Bergkamp. Arrivato all'indomani della storica stagione degli "Invincibili", Van Persie, oltre che la nazionalità e il fiuto per il goal, condivideva con il suo capitano anche l'amore dei fans che in lui avevano trovato il simbolo capace di portare avanti l'eredità dei campioni che, anno dopo anno, abbandonavano l'Emirates Stadium. Nel 2012 i 30 goal in campionato e i 5 segnati in Champions fanno di Van Persie uno dei pezzi pregiati del mercato. Tornando a quell'estate Van Persie parla della relazione con l'Arsenal come quella con una sposa che dopo otto anni sente svanire l'interesse verso il suo amato. Il fatto che al posto dell'amorevole moglie ci fosse il direttore generale dell'Arsenal Ivan Gazidis e la sua proverbiale spilorceria fa capire quale fosse la reale natura della crisi. Combattuto tra le due sponde di Manchester, Van Persie consola le sue pene d'amore in un quadriennale da 8 milioni di euro gentilmente offertogli dallo United. È l'ultima fatica di Sir Alex Ferguson, con cui Van Persie vince il campionato bissando il titolo di capocannonniere dell'anno prima. Nella sua prima stagione all'Old Trafford realizza anche quello che sarà eletto il goal più bello della Premier. Un anno più tardi, ai Mondiali in Brasile, segna invece quello che è probabilmente il suo goal più celebre, il colpo di testa in tuffo con cui l'Olanda trova il momentaneo pareggio nel 5-1 inflitto alla Spagna. Varcata la soglia dei trent'anni Van Persie deve aver accettato i consigli del suo ex compagno Dirk Kuyt, del quale sembra seguire pedissequamente le orme: prima l'esilio dorato al Fenerbahce e poi il ritorno a casa al Feyenoord, dove la mia memoria lo colloca tuttora nell'attacco di Fifa 2004, accanto proprio a Kuyt e all'"indimenticabile" Danko Lazovic.

Fernando Torres
35 anni
Un altro caso di due carriere al prezzo di una. La prima è facilmente riassumibile con quattro flash. Il primo: io alle prese con il solito Guerin Sportivo che leggo di come l'Atletico Madrid, caduto in seconda divisione, ha fatto esordire un baby fenomeno di 17 anni appena che ha anche segnato un goal. Dovevo ancora finire le medie. Il secondo: 28 aprile 2004, si gioca Italia-Spagna. È un'amichevole di preparazione agli Europei che si sarebbero giocati qualche mese dopo ma è soprattutto la passerrella finale che Trapattoni ha concesso a Roberto Baggio dopo aver chiuso le porte a una sua eventuale convocazione in Portogallo. Nel mezzo della meraviglia generale suscitata, come sempre, dal "Divino" fa il suo ingresso in campo il Niño. È lui, lo riconosco, è quello che vidi in foto qualche anno prima: gli stessi brufoli ma con i capelli biondi. Quella sera Fernando Torres segnerà il suo primo goal in Nazionale. Terzo: 29 giugno 2008, Xavi lancia Torres che, chiuso da due difensori tedeschi, lascia sfilare il pallone e aggira l'avversario alla sua destra, colpisce il pallone per primo, il tanto che basta per superare il portiere in uscita. La Spagna è campione d'Europa e oltre a un gioco straordinario ha uno degli attaccanti più forti del pianeta. La seconda metà della carriera di Torres, che a ben guardare è stata anche più lunga della prima, è invece avvolta da una foschia che, complici gli infortuni da una parte e il passare degli anni che annacqua i miei ricordi dall'altra, sembra aver gradualmente appannato il talento del centravanti spagnolo. Nel giro di pochi mesi Torres passa dall'essere l'attaccante implacabile di Liverpool al mezzo bidone del Chelsea, che nella più improbabile delle stagioni centra l'obiettivo più grande. È l'altro grande paradosso di Fernando Torres che, tolto l'Europeo del 2008, ha colto tutti i suoi successi nei momenti meno fulgidi della sua carriera, come i Mondiali del 2010, gli Europei e la Champions del 2012 o le Europa League del 2013 e 2018. Dopo un dimenticabile passaggio al Milan torna all'Atletico, dove nel 2016 ritrova la doppia cifra dopo sei anni. Una volta a casa, Simeone ricostruisce il suo profilo, quello di un attaccante buono per le grandi occasioni, dal goal non facilissimo, ma ottimo da buttare nella mischia quando la posta è alta. Poteva diventare uno dei grandi del calcio mondiale, è stato un grande della Roja, una leggenda per la metà di Madrid.

Sergio Pellissier
40 anni
Dici Pellissier, dici Chievo. Quello dei miracoli, anche se a dire il vero Sergio arrivò nella seconda stagione disputata dai "Mussi" in Serie A, dopo 14 goal segnati in C1 con la Spal. Acquistato per fare da riserva a bomber Marazzina, rimasto orfano del compagno di reparto Corradi, partito per l'Inter, Del Neri gli concederà 25 gettoni nei quali metterà a segno 5 goal. Passano le stagioni e il Chievo è sempre lì, lo stupore lascia spazio all'indifferenza nella quale Pellissier accumula partite e goal. Nel 2006 le sentenze di Calciopoli fanno balzare il Chievo al quarto posto e così arriva anche la soddisfazione di giocare la massima competizione europea, seppure ai preliminari. Ritrovata la Serie A dopo un anno di purgatorio, nei tre anni successivi Pellissier raggiunge sempre la doppia cifra, guadagnandosi anche una convocazione in Nazionale con goal in un'amichevole contro l'Irlanda del Nord. Lascia quest'anno dopo una polemica sorta attorno alle sue simpatie politiche e una retrocessione ma soprattutto dopo il diciasettesimo anno consecutivo a segno con la maglia gialloblu. Nel frattempo è già a processo per una presunta truffa immobiliare. Di diritto tra i miti di provincia.


Consuete menzioni d'onore per tutti gli altri che non ho inserito per ragioni di tempo e spazio: David Villa, qui all'ultima staffetta con Fernando Torres, Peter Crouch (la sua robot dance meritava qualche riga), il brasiliano Juan, Patrice Evra, la cui carriera social promette di durare a lungo, John O'Shea, uno di quelli che ho continuato per anni a credere giovane, Yossi Benayoun, Ashley Cole e, udite udite, Siyabonga Nomvethe, mitologico attaccante sudafricano transitato in Italia nei primi anni Duemila, che alla soglia dei 42 anni ha lasciato il calcio con il record di goal segnati nella massima serie sudafricana.

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giovedì 18 luglio 2019

AFCON 2019 Top XI


Chi mi segue.. già, chi?... dicevo, chi mi segue lo sa, c'è solo una cosa capace di smuovermi dal torpore che mi ha tenuto inattivo per tutto l'anno: la Coppa d'Africa. L'attesa decisione della CAF, che da anni studiava la possibilità di posticipare la competizione di qualche mese per venire incontro alle esigenze di calciatori e club, ha ulterioromente intasato questa prima metà di estate già affollatissima di eventi. Europei Under 21, Coppa America, persino la Gold Cup, hanno rappresentato ottimi diversivi per sfuggire alla vita reale ma, per dirla come i Sottotono, «solo lei ha quel che voglio»: quell'odore speziato, un po' esotico, capace anche d'estate di evocare ricordi dai colori saturi e di coprire il tanfo del gioco prodotto dalle squadre in campo, a maggior ragione in questa prima versione extra-large con 24 partecipanti. Le novità però non hanno soppiantato le tradizioni e come ormai è diventata consuetudine, anche questa Coppa d'Africa è passata di mano all'ultimo minuto, dal Camerun, che già non aveva pienamento digerito la scelta di aumentare il numero delle squadre da ospitare e che nell'ultimo anno si è trovato sull'orlo di una guerra civile tra maggioranza francofona e minoranza anglofona, all'Egitto, che ha messo a disposizione sei stadi, rimasti per lo più vuoti durante tutto il torneo eccetto che per le partite di Salah e compagni.

Fatto lo spiegone ora posso snocciolare gli undici nomi che ho scelto per la mia personale Top XI che, come l'ultima volta, si compone non dei migliori ma di coloro che in qualche modo mi hanno dato motivo di abbandonare i miei "remunerativi" per stare qua a scrivere gratis sull'Internet.

1 Mouez Hassen
24 anni - Tunisia
In porta non ho che l'imbarazzo della scelta: c'è Idriss Kameni, terzo portiere del Camerun dietro al forse sopravvalutato Onana e al mio prediletto Ondoa. Richiamato da Seedorf a nove anni dall'ultima partecipazione in Coppa d'Africa, mi ha riportato per un secondo alle superiori. Il suo nome circola da quasi vent'anni ma di anni, a volersi fidare della carta di identità, ne ha appena 35, non tantissimi per un portiere. Kameni è anche uno dei tre supersititi insieme a John Obi Mikel e a Tresor Mputu ad aver rimesso piede in Egitto a tredici anni di distanza dall'ultima Coppa d'Africa disputata tra le piramidi... sì, lo so, è che se non le dico adesso ste cose non le dico più. Oltre a lui c'è il solido Rais M'Bolhi, la faccia che ti aspetti di vedere sotto al portico di Via Petroni alle 2 di notte, c'è il "Puma" Gomis, portiere della SPAL che ha parato un rigore nella semifinale contro la Tunisia, c'è Elvis Chipazeze, portiere dello Zimbabwe sospettato della combine che avrebbe permesso al RD Congo di passare il turno nell'ultima partita del girone. Di fronte a tanta abbondanza però, almeno per questa volta, ho deciso premiare la gioventù di Mouez Hassen. Portiere della squadra riserve del Nizza, vanta cinque presenze con l'Under 21 francese e una vaga somiglianza con Sergio Ramos. L'anno scorso, alla vigilia del Mondiale francese, ha scelto di difendere i colori della Tunisia mettendosi subito in luce con una simulazione che permise ai suoi compagni di interrompere il digiuno del ramadan durante un'amichevole contro la Turchia. Reattivo e frizzante, fin dalle sue prime presenze Hassen è sembrato essere baciato dalla fortuna. Partito titolare ai Mondiali, si infortuna dopo 15 minuti, giusto il tempo di prendere due goal da Harry Kane e accomodarsi in panchina. Quest'estate Hassen ci ha riprovato e dopo una prestazione di livello nell'ottavo di finale contro il Ghana, sul punteggio di 1-0 per i suoi, subisce un rocambolesco autogoal al 92' in cui sembra quasi mettersi deliberatamente la palla alle spalle. Incolpevole alla prova delle diverse riprese TV, durante i supplementari Hassen sembra più volte sul punto di dover uscire per infortunio. Dopo 120 minuti, con i rigori ormai prossimi, il CT Alain Giresse pensa bene di mandare a scaldare il portiere di riserva. Se Hassen è il ragazzo belloccio che presenteresti ai tuoi, non si può dire lo stesso del suo sostituto, Farouk Ben Mustapha, sosia sovrappeso di Pio di Pio e Amedeo, al cui cospetto il muso lungo e gli occhi tristi di Hassen fanno ancora più tenerezza. Inutile dire come Ben Mustapha si prenderà il merito di tutto parando l'unico rigore sbagliato della serie. In semifinale con il Senegal il copione è lo stesso, con Hassen che una volta cade male, un'altra rimedia una gomitata da Mané e immediatamente si volta verso la panchina, il tutto sotto lo sguardo della regia che alterna sadicamente il primo piano di Hassen alla sagoma debordante di Ben Mustapha. Alla fine Giresse avrà pietà di Hassen che parerà anche un rigore prima di sbagliare un'uscita e provocare l'autogoal che condannerà la Tunisia all'eliminazione ai supplementari. TVB.

2 Ahmed Elmohamady
31 anni - Egitto
Fino alla fatale notte del Cairo è stata a tutti gli effetti la sua Coppa d'Africa. Fascia di capitano al braccio e un Paese intero a sostenere la squadra di Javier Aguirre, il terzino destro dell'Aston Villa sembrava destinato alla consacrazione definitiva, quella che lo avrebbe forse proiettato tra i mostri sacri del calcio egiziano al pari di Mohammed Salah. Già Salah, l'uomo che tutti attendevano e che invece ha spesso lasciato la scena proprio a Elmohamady, difensore con all'attivo appena tre goal nell'arco di oltre dieci anni di militanza in Nazionale e che nelle prime tre partite segna ben due goal, proprio come l'attaccante del Liverpool. L'ottavo di finale contro il Sudafrica sembra benevolo, tappa di trasferimento verso la storia. Non sarà così, un goal a tradimento subito nei minuti finali di una partita rimasta bloccata troppo a lungo soffoca le grida dei tifosi egiziani e spegne i sogni di eternità di Elmohamady che finisce mestamente in questa Top XI accanto ad Hassan Wasswa.

4 Kenneth Omeruo
25 anni - Nigeria
Due anni fa inserii nella Top XI il centrocampista ghanese Christian Atsu, per quattro anni di proprietà del Chelsea e mai sceso in campo in maglia blue prima del suo approdo definitivo al Newcastle. Omeruo, il cui cartellino appartiene anch'esso al Chelsea, di anni in esilio ne ha passati addirittura sei, sei come i club che ha cambiato dal 2013 ad oggi e sei come gli anni trascorsi dall'ultima partecipazione della Nigeria in Coppa d'Africa. Insieme a Obi Mikel e Musa, Omeruo è infatti uno dei tre sopravvissuti della storica vittoria del 2013, quando in coppia con l'"indimenticabile" Oboabona sbaragliò la concorrenza tra l'incredulità generale, riportando a casa un titolo continentale in uno dei momenti più oscuri della storia recente delle Aquile. Titolare in Nazionale a 20 anni, le quasi trenta presenze stagionali di media racimolate con i club confermano la solidità di questo centrale che negli ultimi anni sembrava avere perso terreno a vantaggio dell'Oyibo Wall formato dal difensore dell'Udinese Troost-Ekong e da Leon Balogun. Dopo un Mondiale da riserva Omeruo ha giocato sei partite ripagando la fiducia di Rohr con il goal decisivo segnato contro la Guinea. A neanche 25 anni, si candida per un posto nella prossima Top XI.

6 Hassan Wasswa
31 anni - Uganda
Ad oggi solo Gary Medel credo possa competere con questa roccia umana che non vedrei male interpretare un ruolo in un rifacimento dei Fantastici 4 a Wakaliwood. Svariati chilogrammi di muscoli compressi in 173 angusti centimetri fanno di questo centrocampista adattato a difensore centrale uno dei più compatti e solidi giocatori della Coppa d'Africa 2019 nonché uno degli oggetti più densi del sistema solare. L'ho subito notato con le sue treccine all'indietro mentre dava e prendeva sportellate in area di rigore, come ho notato la carriera da giramondo che si è messo alle spalle tra Etiopia, Turchia, Vietnam, Iraq ed Egitto. A completare il tutto c'è la strana cronologia delle sue presenze in Nazionale che nel 2006 lo vede giocare, diciottenne, ben otto partite per poi sparire e tornare in pianta stabile dal 2012 in poi. Al momento è senza squadra. Un oggetto misterioso, proprio come piace a noi.

3 Jeremy Morel
35 anni - Madagascar
Per chi non lo sapesse Jeremy Morel è un onesto difensore di Ligue 1 che dopo la gavetta passata a Lorient, a 27 anni, si guadagnò la chiamata del Marsiglia. Quattro anni in Provenza e poi il Lione, quasi una promozione per l'ormai 31enne francese che, nonostante le buone prestazioni, anno dopo anno ha visto diminuire le sue chance di essere convocato in Nazionale. Si sa come Deschamps abbia una una certa ritrosia alle novità, meno nota è la nazionalità malgascia del padre di Morel, che a fine 2018, constatata la qualificazione del Madagascar alla Coppa d'Africa, approccia l'allenatore Nicolas Dupuis facendogli presente che in caso di bisogno lui ci sarebbe. Un po' sorpreso e ignaro delle origini di Morel, Dupuis ci pensa un po' e capisce che la sua esperienza potrebbe tornare utile a una squadra che si affaccia per la prima volta a un grande torneo. Il resto è storia, il Madagascar vince il girone battendo la Nigeria con un clamoroso 2-0 e sbatte fuori la RD Congo ai rigori prima di arrendersi alla Tunisia ai quarti. Durante l'avventura egiziana Morel parte da riserva e si limita più che altro a dare il cambio sulla sinistra a Jerome Mombris ma in questa squadra è titolare fisso.

8 Romario Baggio Rakotoarisoa
25 anni - Madagascar
Letto il nome non potevo non inserirlo. Un nome bizzarro che ha destato le attenzioni di giornalisti e curiosi ma che si spiega facilmente con il suo anno di nascita, 1996, e con una passione non da poco nutrita per i due campioni dal padre di questo sconosciuto calciatore. Cercando a caso su Google i primi tre siti che ho controllato me lo segnalano come centrocampista difensivo, terzino e attaccante, un dubbio, quello relativo alla sua posizione in campo, che neanche il suo allenatore è riuscito a sciogliere dato che non lo ha mai schierato nel corso delle cinque partite giocate dal Madagascar.

5 John Obi Mikel
32 anni - Nigeria
Passerella d'addio per quello che è stato il giocatore più rappresentativo della Nigeria in questo primo scorcio di millennio ed anche il suo più grande rimpianto. Affacciatosi sulla scena internazionale nell'ormai lontano 2005, Obi Mikel chiuse il Mondiale Under 20 di quell'anno con un secondo posto e il titolo di secondo miglior giocatore del torneo, in entrambi i casi alle spalle di un certo Lionel Messi. Il passaggio dal Manchester United, che ne detenva il cartellino pur avendolo parcheggiato in Norvegia, al Chelsea fu il punto di svolta della sua carriera e probabilmente della storia recente delle Super Aquile. Dovendo rimpiazzare una generazione probabilmente irripetibile come quella degli artefici dei successi degli anni Novanta, i tecnici avvicendatisi sulla panchina nigeriana si trovarono praticamente ostaggio del talentuoso centrocampista del Chelsea che, sotto la direzione di Mourinho, stava però iniziando la metamorfosi che lo trasformerà da giocatore di costruzione a mediano di interdizione. Ecco, la creazione del gioco delle Aquile è da più di un decennio in mano a uno che nel suo club si preoccupa principalmente di rompere quello altrui. Un equivoco che a mio modesto parere riflette un problema più generale del calcio africano e i cui effetti sono stati confermati anche in questa Coppa d'Africa. Obi Mikel è tornato a sorpresa (non così tanta) in Nazionale dopo l'addio dell'anno scorso ma le sostituzioni subite negli unici due incontri concessigli sembrano davvero essere l'ultimo amarognolo capitolo della sua storia con le Aquile, la recente firma con il Trabzonspor in Turchia toglie ogni dubbio residuo.

7 Riyad Mahrez
28 anni - Algeria
Tra i più attesi due anni fa insieme a un'Algeria che era partita per vincere e che si trovò a casa già dopo la prima fase, in questa Coppa d'Africa si è mosso a fari spenti e oggi si ritrova in finale. Tre goal, tra cui quello con dedica segnato allo scadere nella semifinale con la Nigeria, ne fanno probabilmente l'MVP dell'intero torneo, e uno dei tre giocatori insieme a Salah e Mané a giocarsi lo scettro di migliore del continente. Con Guedioura, Bennacer e Belaili forma il centrocampo più forte del torneo nella squadra che al momento è sembrata senza dubbi la più consistente. Meglio tardi che mai.

10 Wahbi Khazri
28 anni - Tunisia
Conoscevo già il fantasista del Saint-Etienne ma questa è la prima volta che l'ho notato veramente. In tutto il torneo non ho visto nessuno incidere come il tunisino, ne è testimonianza il suo ingresso nel secondo tempo dell'ottavo di finale contro il Ghana. I suoi dribbling e finte di corpo portano rapidamente scompiglio nella difesa avversaria prima di lasciare che il pallone sfili davanti allo specchio della porta. Poco dopo con un colpo di tacco smarca Kechrida, libero di servire a Khenissi il pallone del vantaggio tunisino. L'ingresso di Khazri in quella partita è anche il punto di svolta di tutta la Coppa d'Africa per una Tunisia che era giunta agli ottavi come seconda del suo girone con tre punti frutto di altrettanti sconfortanti pareggi. Largo a destra o trequartista alle spalle della punta, il suo destro tagliato e potente lo rende temibile anche da calcio piazzato, mentre la corporatura tozza e la testa rasata lo fanno assomigliare a Roberto Carlos. Insomma, si è capito o no che mi piace questo Khazri?

11 Sadio Mané
27 anni - Senegal
È l'unica conferma rispetto alla squadra che stilai due anni fa. Rispetto ad allora, quando lo definii il giocatore più forte d'Africa, Mané può contare una Champions League vinta da protagonista e parecchia consapevolezza in più che lo proiettano su un piano che ormai va oltre il panorama continentale. Eppure, come due anni fa, sembra che a Sadio piaccia danzare sul sottile filo che separa la gloria dall'ignominia. Trascinatore fino al decisivo tiro dal dischetto che mandò a casa il Senegal nel quarto di finale contro il Camerun nella scorsa Coppa d'Africa, anche quest'anno Mané ha alternato prestazioni da leader a clamorose cappelle dagli undici metri con ben due errori che potevano pregiudicare nuovamente il cammino di una delle squadre favorite per il successo finale. I tre goal segnati finora fanno ancora pendere la bilancia a suo favore così come la decisione di lasciare il rigore in semifinale al compagno Saivet che ovviamente ha sbagliato pure lui. In finale contro l'Algeria farà di tutto per scongiurare la lotteria dei rigori.

9 Michael Olunga
25 anni - Kenya
Quando ho saputo della mancata qualificazione del Burkina Faso mi sono dovuto rassegnare all'idea che non avrei potuto inserire in attacco Aristide Bancé... e io amo Aristide Bancé. Alla ricerca di una punta altrettanto pachidermica e stilosa, una sera di giugno mi sono imbattuto in questo gigante kenyano che al tradizionale ruolo di boa che ci si aspetta da un giocatore come lui unisce anche un gran movimento. Era la sera del derby Kenya-Tanzania, probabilmente la partita più divertente di questa edizione della Coppa d'Africa, e per me anche la più emozionante. Il caso vuole che da neofita della ludopatia avessi giocato qualche euro sulle partite della giornata. Al sicuro del mio 1X per il Kenya e con la schedina quasi completata, seguo con fiducia le prime fasi di gioco. Dopo sei minuti il goal con cui Simon Msuva porta in vantaggio la Tanzania mi scaraventa in una crisi morale in cui alterno ripetute promesse di non scommettere mai più ad avventati tentativi di recupero giocando su improbabili campionati femminili del nord Europa e a maledizioni in kikuyu rivolte ai giocatori della Tanzania. Devono essere state queste ultime a provocare il rimbalzo anomalo che permette a Olunga di segnare in rovesciata il goal del pareggio kenyano. Seguono attimi di gioia che solo un tornaconto personale può regalare. Il tempo di complimentarmi con me stesso per la mia arguzia e competenza che un minuto dopo Mbwana Samatta rimette le cose in chiaro: «sei una fava con le scommesse». Si va al riposo sul punteggio di 2-1. Il secondo tempo è una sofferenza, ogni scatto di Masika, ogni filtrante di Wanyama e ogni lancio lungo per Olunga sono una promessa di redenzione che viene continuamente disattesa. Comincio a rassegnarmi all'idea di aver perso pochi spicci e che i poteri forti tramino contro di me. Quando tutto sembra perduto ecco che un certo Johana Omollo pareggia restituendomi la fiducia nel mondo persa mezz'ora prima. Olunga nel frattempo suda  e si sbatte da una parte all'altra del campo, torna a difendere e fa da riferimento per i compagni dietro. Io sudo a guardarlo. A dieci minuti dalla fine il solito Olunga riceve il pallone al limite dell'area e tira una ciabattata che si infila tra palo e portiere: è l'apoteosi, sento già il tintinnare della cassa, percepisco un improvviso innalzamento di quella cosa che i più definiscono autostima e provo un innato desiderio di scoprire le mie ascendenze kenyane. Me ne vado a letto con la convinzione che, dopotutto, il mondo è un bel posto. La mattina seguente controllo i risultati della notte certo che il Brasile non possa non aver vinto in casa con il Paraguay. Leggo 0-0, maledico il Sudamerica e Bolsonaro e mi avvio al lavoro con il fantasma di Mbwana Samatta che mi ripete nelle orecchie: «sei una fava con le scommesse!»

Allenatore - Aliou Cissé
Senegal
Il cuore dice Michel Dussuyer, archetipo dello "stregone bianco" con quell'aria trucida da reduce della legione straniera in cerca di riscatto. Il suo Benin è stata la grande sorpresa insieme al Madagascar, un piccolo esercito organizzato e cazzutissimo costruito per non perdere mai come dimostrano i quattro pareggi in quattro partite rimediati dagli Scoiattoli. La testa però dice Aliou Cissé, capitano del Senegal del 2002 e oggi simbolo degli allenatori africani che piano piano si sono ritagliati il loro spazio rimpiazzando i romantici ma spesso non indispensabili saggi europei. Quella di oggi tra Cissé e Belmadi sarà infatti la prima finale disputata tra CT africani dal 1998. Una finale ottenuta con le unghie da Cissé che con il sostegno degli ex compagni di Nazionale è riuscito a vincere la concorrenza del francese Giresse e ancora di più il pregiudizio della sua Federazione.

A centrocampo c'è un nome che fa reparto da solo.
E niente, è tardi e come al solito abbiamo detto più del necessario. Au revoir.

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