sabato 9 luglio 2016

Cosa resterà...


No dai, non fate finta di non aver capito. Dai che lo sapete. Pooo popoppo popopo, lo sentite? Sì, è il 9 luglio 2016 e arriva un altro pippone nostalgico di Angulo Inverso. A dire il vero sono rimasto un po’ sorpreso dall’indifferenza che i media sembrano aver riservato al decennale della nostra ultima vittoria mondiale. Dal TG dell'ora di pranzo mi sarei aspettato almeno una di quelle clip struggenti, con la musica in sottofondo sulle immagini di Fabio Grosso incredulo contro la Germania, invece niente. Anche Ultimo Uomo, sempre tremendamente sul pezzo, apre stamattina con un aggiornamento sulle qualificazioni dell’Italia di Basket alle prossime Olimpiadi (per la cronaca: abbiamo battuto il Messico e ci serve un’ultima vittoria con la Croazia… ahhh #machenesanno di Toni Kukoc!). Comunque sia, la testata di Zidane a Materazzi, Cannavaro sul piedistallo con la Coppa del Mondo, Fabio Grosso, nato e morto nel giro di un’estate, «il cielo azzurro sopra Berlino», hanno tutti 10 anni tondi tondi.

Anche alla luce delle paturnie che hanno accompagnato la sfortunata uscita dall’Europeo ancora in corso in Francia, sale impellente una domanda: che cosa è rimasto?

Niente verrebbe da dire, o un poco che a breve è destinato a sparire, consegnato a video a bassa risoluzione e ai ricordi travisati di chi oggi crede che sia stato Materazzi a rifilare la testata a Zidane. Sembra incredibile, ma comincia a proliferare una generazione che non serba alcun ricordo di quell’estate. Una manciata d’anni e ci troveremo a che fare con persone per cui il nome di Iaquinta susciterà più o meno le stesse sensazioni che quelli della mia generazione, quelli nati nell’Italia da bere di fine anni Ottanta, hanno provato nel sapere che Franco Selvaggi fu campione del mondo nel 1982. Indifferenza, un’alzata di sopracciglio, un “e stic***i non ce lo metti?!” 2006 is the new 1982 o lo sarà a breve e quando quel giorno arriverà potremo incolpare solo noi stessi per il fatto di essere troppo vecchi per capire che Icardi è il più grande centravanti che il calcio abbia mai conosciuto, che Pogba è il re dello stile e che nessuno prima di lui seppe portare bizzarre capigliature sui campi di calcio, che Donnarumma è il portiere più forte della Terra e che ricorda vagamente quel quarantenne con il nome tronco. È così, il 2006 sta morendo e a dieci anni di distanza quasi tutti i suoi protagonisti hanno già appeso le scarpe al chiodo, giocatori che per abitudine considero ancora talenti in divenire sono da tempo sul viale del tramonto senza che me ne sia accorto. De Rossi, il più giovane della spedizione di Marcello Lippi, oggi viene tollerato in una società di cui una decina di anni fa sembrava poter diventare pontefice e il suo ruolo nel centrocampo “azzurro” agli ultimi Europei doveva essere più o meno quello del chewing gum che tiene insieme le pareti di un edificio pericolante. Buffon, fenomeno più o meno in tutto, non ultimo in fatto di longevità, piange in diretta TV le lacrime di chi sa che quello calciato dal terzino tedesco Jonas Hector e che gli è appena passato sotto il braccio sinistro è probabilmente l’ultimo treno di una carriera agli sgoccioli.

Non sarà che invece di quell’estate è rimasto tutto? Quel poco che c’è non è altro che un raggio partito 10 anni luce fa da Berlino e che sta finendo solo ora di illuminare la strada di questo Paese. Un raggio solare che era in ritardo già dieci anni fa, come le carriere dei Cannavaro, dei Nesta, dei Del Piero, dei Totti, quella generazione nata nella metà degli anni Settanta da cui ci saremmo aspettati molto di più e che proprio quando il tempo sembrava scaduto riuscì ad acciuffare per i capelli il successo di una vita. Del 2006 rimane tutto, gli stessi problemi, le stesse polemiche, i vivai nei quali dobbiamo ancora investire, gli stadi che dobbiamo ancora ristrutturare, gli stranieri ancora da limitare, soluzione plausibile forse solamente in un Paese arretrato come il nostro. Questo fu l’humus da cui scaturì l’estemporaneo successo del 2006, il tutto condito con un bello "scandalo scommesse" dei nostri, e questo è stato il terreno brullo da cui non si sa come è sbocciato il bell’Europeo di quest’anno. Sono successi, se di successo si può parlare per il quarto di finale perso con la Germania, tipicamente italiani, financo deleteri perché mascherano problemi e vizi che finiscono per diventare virtù. Belli perché inaspettati, frutto della comunanza che nasce dall’emergenza e non dalla programmazione, irrazionali, impronosticabili. Sono successi dal valore emozionale altissimo, i soli capaci di compattare per qualche giorno un Paese perennemente sull’orlo del disastro. A quanto pare sono i soli successi di cui siamo capaci e sono successi che non insegnano niente ma che lasciano un’infatuazione lunga un’estate per un gruppo, per un uomo deciso e decisionista che dimostri di saper condurre quella che a fine maggio sembra essere una bagnarola con evidenti problemi di tenuta dello scafo fino alla vittoria in Coppa America contro i catamarani neozelandesi.

Oggi, nel 2016, di quel 2006 c’è tutto e niente. Di certo c’è che quando ci voltammo e ci lasciammo il 2006 alle spalle per la prima volta, lui era lì, a portata di mano, un passato prossimo caldo e rassicurante, come quella maturità sudata ai 40° di un’aula al terzo piano, come la soddisfazione per quell’esame all’università andato bene, come il bacio che non avevi il coraggio di dare ma che arrivò come una benedizione da quella moretta conosciuta alla spiaggia libera perché «oh l’ombrellone ma sai quanto costa?!» Lo avevamo lasciato lì, con l’ultimo pooo popoppo popopo ancora in gola e “Materazzi ha fatto gol” nel cellulare, convinti che quando lo avremmo cercato lo avremmo trovato lì dove l’avevamo lasciato, il 2006. Stamattina però ci siamo svegliati, ci siamo voltati indietro e quello che abbiamo visto non è quello che ci saremmo aspettati.

Più piccolo, i colori un po’ meno accesi del HD a cui ci siamo ormai abituati, distante. Dopo il goal di Giaccherini contro il Belgio, quando Chiellini esce vincitore da una furibonda mischia nell’area della Spagna, ecco che il 2016 sembra colorarsi delle profanità che parenti e amici pronunciavano dieci anni prima raggruppati davanti alla TV, del fresco di una birra chiara sorseggiata a inizio luglio, dell’adrenalina del giorno prima dell’esame. Ma non sono che momenti brevi, attimi di esaltazione collettiva tenuti in vita artificialmente dai continui raffronti con il passato: «vedo lo spirito del 2006 in questo gruppo», così come fino ad allora si cercavano a tutti i costi similitudini con il 1982. Finita la partita però, dopo l’esaltazione seguita dalla delusione, dopo i singhiozzi che scandiscono le interviste di Barzagli e Buffon, ecco che i contorni ingialliti e le orecchie agli angoli del poster di Cannavaro che tenevamo nella cameretta compaiono più evidenti che mai, pronti a ricordarci che il tempo trascorsco è tanto così. Perché il tempo è fatto così, non ti accorgi quando passa e le ricorrenze, le date, gli anniversari sono le pietre miliari che ci servono per capire a che punto siamo del nostro percorso, e oggi quei paletti ci dicono che purtroppo il cielo non è più azzurro sopra Berlino.

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domenica 3 luglio 2016

Come lacrime nella pioggia


Qualcosa di fragile, di impalpabile ma maledettamente realistico, come uno di quei sogni troppo belli che svaniscono nel momento stesso in cui inizi a prenderne coscienza. Ieri sera è stato così. Lo è stato per noi, che a migliaia di chilometri, birra alla mano, guardavamo Florenzi affogare nella pozzanghera del suo stesso sudore, più preoccupato di schivare gli anatemi che Conte gli scagliava da bordo campo che a coprire su Özil, o Sturaro, che in preda ai crampi, dopo 120 minuti passati in apnea, si produce in uno scatto all’inseguimento di Schweinsteiger che lo trasfigura, ne fa un Siddharta Gautama qualsiasi che nel bel mezzo dello stadio Matmut-Atlantique di Bordeaux trova il suo albero dell’illuminazione sotto il quale gli si dischiudono le Quattro nobili verità del credo “contiano”. È  stato lo stesso per chi su quel campo ci ha giocato. E ha pianto.

Forse non è del tutto chiara la misura dell'impresa che “la Nazionale più scarsa di sempre” ci ha illuso di poter compiere e forse non lo sarà mai. Arrivata a Montpellier con un centrocampo di fortuna, si è trovata decimata all'appuntamnto più importante. Oggi però è già domani, il calciomercato macina pagine di quotidiano e la corsa all’ultimo presunto top player, che tanto in Italia non vedremo prima dei 35 anni, incombe. Tutto troppo veloce, non c’è tempo per riflettere, non c’è tempo per capire come “i peggiori di sempre”, quelli “brutti, sporchi e cattivi” si siano permessi di giocare alla pari con i migliori del mondo.

Sia chiaro, come sempre capita, il grado di soddisfazione per la prestazione della Nazionale è inversamente proporzionale alle aspettative nutrite alla vigilia. Fu così quattro anni fa, quando la sbornia polacca e i muscoli di Balotelli caricarono di ingiustificata attesa il Mondiale brasiliano. Così non sarà questa volta, o almeno credo.

Due cose mi hanno colpito ieri sera, anzi tre. Tralasciando la decisione di Löw di modificare il proprio schieramento apposta per noi, la prima è stata la scena della squadra che in attesa dei supplementari, al segno di Conte, si sposta in massa, all’unisono, non ad accorciare sulle linee di passaggio avversarie ma verso Chiellini, sofferente e impossibilitato a muoversi dalla panchina. La seconda, che riassume la prima e tutto il resto, è stato il pianto di Barzagli e Buffon. Non le lacrime, il pianto.

Un 2 luglio di lacrime.
Le esigenze di mercato, che impongono spazi pubblicitari sempre più serrati, hanno ridotto i momenti in cui gli spettatori possono indugiare sui festeggiamenti dei vincitori e sullo smarrimento degli sconfitti. Ieri era il 2 luglio, esattamente sedici anni da Rotterdam e dalla secchiata gelata con cui Trezeguet ci svegliò da un sogno analogo. Ieri però non ho visto le stesse lacrime. Allora la posta in gioco era più alta, il successo forse ancora più vicino, la mia delusione fu enormentemente più grande, probabile segno dell’età adulta che, nonostante tutti i miei sforzi, mi chiama a sè. Ricordo Cannavaro pietrificato, con una mano in bocca, alzata forse per coprire il viso e poi dimenticata lì, a mezza altezza, indifferente alla pioggia di rimpianti che si infrangeva sulle sue spalle. C’era Toldo con gli occhi lucidi e il sangue che gli colava sul labbro superiore e c’era Zidane, che trovava un po’ di tempo per andare a consolare gli avversari, molti dei quali suoi compagni di squadra. Sarà stata distrazione, sarà stato lo spot della Hyundai I20, ma ieri quelle scene non le ho viste. Di allora c'era l'orgoglio per un risultato insperato, unico lenitivo alla sconfitta, ma mi aspettavo che i vecchi andassero a consolare i giovani, invece ho visto i primi più a terra dei secondi. Quello che ho visto era un’atmosfera strana, come quando ti svegli di soprassalto, impacciato e inerme, sospeso tra un sogno bellissimo che credevi di poter toccare e la realtà che ti restituisce alla sua tragica ordinarietà senza lasciarti il tempo di reagire. Ho visto una squadra tornare tragica e ordinaria in un istante.

Le telecamere ci hanno fatto solo intravedere quell’atmosfera che sapeva più di stordimento che di delusione, con Buffon che si rialza frettolosamente dopo l’ultimo rigore, i nostri in mezzo al campo che piano piano riprendono contatto con il mondo reale, Conte, che secondo me non si era ancora completamente svegliato, ai microfoni RAI sembra assente, magari con la testa alle sedute tattiche che impartirà ad Hazard e compagni. Quesi secondi li ho passati osservando morbosamente il teleschermo, in cerca di quella delusione adolescenziale che mi colpevolizzo di non riuscire più a provare. Passati i primi minuti e lasciato decantare lo stordimento, ecco però che appare Barzagli. Mi aspetto le solite frasi di rito, soprattutto da uno come lui, da uno della sua esperienza. Chissà quante ne ha passate quello lì, farà i complimenti a tutti, rimarcherà la compattezza del gruppo e del lavoro fatto, mi sto già pentendo di essere rimasto a seguire il dopo-partita. Invece ecco che il 35enne Barzagli mi rovescia addosso ettolitri di emotività in 4K (no scherzo, sulla mia TV neanche il pallino blu si riesce a vedere). «Quello che rimane è la delusione. Di quello di bello che abbiamo fatto, secondo me, non rimarrà niente.» Il protocollo va completamente a puttane dopo una trentina di secondi, quando Barzagli non riesce più a trattenere le lacrime e grida la resa con un «non me ne frega un cazzo». Seguono, per me, i secondi più dolorosi dell’Europeo e del calcio degli ultimi anni, con un campione del mondo che parlando a stento ci vomita in faccia la cruda realtà quando dice che tra qualche anno nessuno si ricorderà di una Nazionale che ha dato tutto, una Nazionale dove c’era «voglia di stare insieme».


Riconciliatomi per un secondo con il ragazzino capace di illudersi e soffrire per la Nazionale, ho pensato che per una volta tutte le puttanate che si dicono nel calcio, “il progetto”, “il gruppo”, “la grande famiglia”, potessero essere vere. Almeno per una volta. Poco dopo, l’intervista di Buffon è surreale, i singhiozzi e la voce alterata dal pianto sono il sottofondo di un’analisi lucida che conferma l’impressione che non si sia trattato di una sconfitta qualsiasi. Non è normale che gente che ha giocato Mondiali e finali di Champions reagisca così per un quarto di finale perso. Che ci sia stato veramente qualcosa in questo “gruppo”, che inquadrato in un vero “progetto” ha saputo diventare di più della semplice somma dei suoi elementi, una squadra, una “famiglia”?

Deve esserci stato di più di Buffon al suo ultimo Europeo, di Barzagli alla sua ultima in "azzurro". La consapevolezza che forse un'occasione così non capiterà più, che un'Italia a certi livelli difficilmente la vedremo in tempi brevi non basta a spiegare quelle lacrime. C'era forse la frustrazione di un gruppo che ha tirato fuori molto di più di quello che poteva dare, e il rimpianto che questo, in fondo, sarebbe potuto bastare. Fin dai giorni del ritiro a Coverciano Conte ha ripetuto che saremmo arrivati dove avremmo meritato, l'importante sarebbe stato finire senza rimpianti. Non c'è nulla che i suoi ragazzi possano rimproverarsi, eppure all'ombra dell'orgoglio per un risultato prestigioso e insperato, si annida il rimpianto, il sogno non così proibito che a piangere sarebbero potuti essere ancora una volta i tedeschi, che tutta la fatica, l'applicazione e la tensione nervosa messa in campo da una generazione di calciatori più che normali, presto o tardi andranno perse, come lacrime nella pioggia. I tweet, le grida si scherno e indignazione verso Pellè e Zaza ci hanno messo presto a convincermi delle ragioni di Barzagli.

Questo gruppo meritava davvero? Non lo so. Quello che so è che questa è stata una Nazionale unica. L’unica Nazionale dove l’individualità di spicco era rappresentata dal signore in giacca e cravatta che (non) sedeva in panchina. Una Nazionale che tolti quattro o cinque elementi, una cresta, una barba, faceva sollevare più di qualche interrogativo circa l'identità dei suoi componenenti. Una Nazionale il cui centravanti era un esule salentino fuggito dall'Italia e rimasto latitante per anni, dimenticato tra Olanda e Inghilterra, prima che le ragazze, prima ancora che i loro fidanzati, ne imparassero ad apprezzare le sponde. “La peggiore Nazionale di sempre”, che in virtù dei suoi limiti ha creato aspettative incredibilmente basse, e che con ore di video, di schemi, di movimenti ripetuti all’infinito sotto la minaccia del suo aguzzino pugliese ha saputo superarle una dopo l’altra, quelle aspettative. L’unica Nazionale, e qui la sparo grossa, che è riuscita a realizzare il sogno "sacchiano" di un gioco in grado di prescindere dalle individualità. Questa è la prima volta che una Nazionale italiana verrà applaudita dopo essere uscita ai quarti di finale di un torneo internazionale. Spero che almeno questo ce lo ricorderemo.

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