venerdì 30 dicembre 2016

Necrologio 2016

Il 2016 è prossimo alla conclusione, un altro anno demm… che oltre alle decine di morti nel mondo dello spettacolo ci lascia in eredità una serie di ritiri eccellenti.


Steven Gerrard 
36 anni
Figlio della Kop, bambino prodigio, capitano e leggenda dei reds. Artefice della più folle delle vittorie in Champions, di lui resta il rammarico di non aver raccolto quanto meritato e di avere sulla coscienza l’errore che costò al Liverpool l’unica vera occasione di riportare a casa la Premier League.


Miro Klose 
38 anni
Forse il più grande bomber dai tempi Gerd Muller (anzi, i numeri invitano a togliere quel forse), solo che nessuno lo sa. Un esempio di campione silenzioso. Per un omaggio come si deve vi invito a leggere qui.


Luca Toni 
39 anni
Cannelloni, Luca Toni, pepperoni, Luca sei per me…  numero uno!

Diego Milito
37 anni

Da anonimo sosia di Francescoli a idolo di tre tifoserie, da Buenos Aires, a Genova, a Milano, e poi la Champions che non gli valse neanche una nomination al Pallone d’Oro. Addio mio dolce Principe.

Nemanja Vidic 
35 anni
Colonna dell’ultimo Manchester di Alex Ferguson, l’ultimo vero Manchester. Per lui una Champions e un caso di stalking.

Juan Carlos Valeron 
41 anni
Un maestro del calcio, tecnico, elegante, intelligente. Chi ha giocato con lui non riesce a non fargli i complimenti. Per Jugovic era più facile giocare bene con Valeron al proprio fianco. Trovatosi prigioniero di un’epoca che non era la sua, troppo veloce e fisica per le sue fragili spalle, valgano però le parole di uno che in questa epoca ha dimostrato di trovarsi decisamente a suo agio, Andrès Iniesta: «Valeron è uno di quei giocatori per cui vale la pena pagare il biglietto.»

Alex 
34 anni 
No, non è Alexandro de Souza, il nostalgico ex Parma e Fenerbahce di cui parliamo qui, bensì Alex Rodrigo Dias Da Costa, l'appesantito difensore del Milan che Mexes e Zapata, loro malgrado, si sono guardati bene dal fare sfigurare. Alex però non era solo il ciccione visto da noi, centralone con il senso del goal in area era uno specialista delle punizioni. Un posticino tra Branco, André Cruz, Roberto Carlos e Juninho glielo teniamo.


Mikel Arteta 
34 anni
Promessa mai del tutto sbocciata, all’Everton seppe riguadagnarsi parte di quello che la sua carriera gli aveva promesso in gioventù. L’ultimo capitano dell’Arsenal che conosco.

Fernando Cavenaghi 
33 anni
Nel 2003 c’erano Tevez, Mascherano, Zabaleta e poi lui, il Torito Cavenaghi, uno di quei giocatori argentini che ad ogni Mondiale under 20 sembrano destinati a una grande carriera. A 20 anni sceglie di giocarsi la sua chance europea in Russia e da lì forse il suo destino cambia. Non troppe soddisfazioni tra Spagna, Francia, Messico e Cipro ma uno status di eterno idolo al River Plate. Ci mancherai un po’ anche tu, cugino del Cave di Bellinzago.

Bobby Zamora
35 anni
Qui da noi non è molto conosciuto ma in Inghilterra gode di uno stato di idolo ovunque sia passato… oddio forse al Tottenham no, però i tifosi di QPR, West Ham e Fulham lo ricordano così.

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venerdì 23 dicembre 2016

Caro Maestro/III

In questa puntata: Maradona al Flamengo, anzi no, al Boca, anzi no... Batistuta contro la municipale, le notti insonni di Cecchi Gori, una storia di giocatori in affitto, Tabarez in galera. Densità stimata: 3,7 aneddoti per centimetro quadrato.

 
Cambio vita, me ne vado in Argentina
C’eravamo lasciati alla notte dell’Olimpico dove l’Uruguay esce sconfitto ma con l’onore delle armi. I tanti falli fischiati ai sudamericani lasciano qualche strascico polemico che come nel suo costume Tabarez non raccoglie: «Auguro all'Italia di vincere questo Mondiale, se lo meriterebbe proprio. Ai nostri tifosi li rimando ai campionati del '94 negli Stati Uniti» Un signore quell’uruguayano, l’avrà pensato anche Gianni Brera, che in uno dei suoi ermetici pezzi ha solo parole di elogio per il gioco intelligentemente difensivo mostrato dalla sua squadra.

Quella notte magica, quell’estate italiana però lascia qualcosa di più di un’onorevole eliminazione, è l'inizio di un rapporto simbiotico tra il calcio uruguayano e la nostra Serie A che in qualche modo dura tuttora. Per qualche insondabile affinità elettiva dovuta forse al mare, forse ai buoni uffici che Tonino Orrù e Massimo Cellino potevano vantare presso il tentacolare procuratore Paco Casal, è a Cagliari che si forma la prima “Little Montevideo” italiana. All'inizio dei Mondiali Fonseca non fa in tempo a scendere in campo che ha già firmato il suo nuovo contratto con i rossoblu. Nell’ambiente teso di Veronello per la sconfitta subita con il Belgio, la trattativa per “Pepe” Herrera, su cui perfino la Juventus aveva messo gli occhi, va per le lunghe. Alla fine, con qualche giorno di ritardo Herrera potrà esternare tutta la sua gioia: «Adesso sono felice e capisco cosa ha provato Fonseca dopo la firma col Cagliari. Il richiamo di Cagliari è stato troppo allettante per lasciarsi sfuggire l'occasione, in Italia si gioca il miglior calcio del mondo» Qualche settimana e anche Francescoli si decide a sbarcare in Sardegna. E il Maestro? Ovviamente attraccherà anche lui al porto di Cagliari ma il suo sarà un viaggio un po’ più lungo. Prima tappa: Buenos Aires.

Date le aspettative della vigilia, l’eliminazione agli ottavi non lascia troppi margini per una riconferma che già prima del Mondiale appariva improbabile visti gli attriti e le incomprensioni con una federazione che El Maestro giudica troppo assente e disorganizzata. In Sudamerica le sue doti tecniche ed umane però sono note e non passa molto tempo prima che arrivi la chiamata di Antonio Alegre, l’uomo a cui a metà anni Ottanta il presidente argentino Raul Alfonsin aveva chiesto di salvare il Boca Juniors dal fallimento. Un grande onore ma anche una grande responsabilità per Tabarez che racconta come appena arrivato alla Bombonera si sentì dire: «allenare il Boca non è come essere Presidente della Repubblica, ma quasi.» All’inizio del 1991 il Boca è una squadra in salute ma che non alza un trofeo importante da quasi dieci anni, per questo il deludente ottavo posto rimediato nel Campionato Apertura 1991 ha convinto la dirigenza a esonerare il tecnico Carlos Aimar. La rosa a disposizione non è eccelsa ma questo di certo non spaventa El Maestro che più che campioni cerca allievi disposti ad imparare. Tra questi allievi spicca un giovane attaccante con i capelli biondi. Arriva dal River Plate dove l’allenatore Daniel Passarella lo ha sommariamente bocciato dopo poche partite. Segna poco, spreca tanto ma Tabarez non impiega molto tempo per capire che quel capellone che Aimar fa giocare esterno è in realtà l’unico vero centravanti della squadra. Il suo nome è Gabriel Omar Batistuta. La prima cosa che fa Tabarez dopo il suo arrivo è spostarlo al centro dell’attacco, mettendo al suo servizio la fantasia e la velocità di Diego Latorre e Alfredo Graciani. Il Maestro non rinuncia al suo amato 4-3-3, che con Batistuta si arricchisce di quella punta centrale forte fisicamente che gli era mancata nel biennio passato alla guida dell'Uruguay. La vera stella del Boca però è Latorre che rispetto all’amico Bati ha avuto un inizio carriera travolgente, esordendo in prima squadra a 18 anni e guadagnandosi per primo l’ingombrante etichetta di erede di Maradona.

L’approccio di Tabarez con l’ambiente non può essere migliore visto che vince subito due amichevoli contro i rivali del River. Il campionato inizia con una vittoria in casa dell’Argentinos ma è tre giorni dopo, alla Bombonera, che si consuma il battesimo del fuoco. È la prima partita di Coppa Libertadores e di fronte c'è, manco a dirlo, il River Plate. Agli ospiti bastano pochi minuti per portarsi sul 2-0. Latorre accorcia le distanze ma neanche il tempo di mettere la palla al centro che l’arbitro fischia un rigore per il River. Si va negli spogliatoi sul 3-1, unica consolazione l’espulsione di Astrada che lascia i suoi in dieci. All’11′ della ripresa una punizione in area è intercettata da Blas Giunta che accorcia le distanze. Il Boca preme e a 20 minuti dalla fine un triangolo tra Latorre e Marchesini mette in condizione quest’ultimo di battere sul primo palo il portiere Passet. L'impresa è già compiuta ma è il tiro sotto la traversa di Latorre a tempo quasi scaduto che consegna la partita alla storia, che consacra definitivamente Latorre come nuovo idolo della Bombonera e che fa capire al pubblico argentino che quel gentiluomo venuto dalla sponda opposta del Rio de la Plata è destinato a lasciare il segno.

Fammi spazio.

Il segno per la verità l’ha già lasciato con tre Superclásicos vinti in neanche tre mesi che gettano le basi di una delle strisce più vincenti del Boca nella storica rivalità con il River. In due anni saranno 12 le vittorie nel derby, con una sola sconfitta e ben due affermazioni in Libertadores. Due mesi dopo il miracoloso 4-3 della Bombonera si gioca infatti il ritorno al Monumental dove Batistuta sale in cattedra. Prima si procura un rigore che trasforma spiazzando il portiere, poi manca di un centimetro una palla che è solo da spingere in rete, infine si fa perdonare segnando di testa al termine un'azione fotocopia di quella precedente. In campionato il Boca di Tabarez vola, con sette vittorie nelle prime dieci partite, due soli goal subiti e nessuna sconfitta, scava un profondo solco tra sé e le inseguitrici già a metà del torneo. Il segreto? Pur non parlando lo spagnolo lo si può capire abbastanza bene da questa vecchia VHS che si apre simbolicamente con le immagini del titolo del 1981, l'ultimo del Boca fino a quel momento, l'unico di Maradona con la camiseta gialloblu. Tabarez si impegna fin da subito a trovare la posizione ideale per ciascun giocatore, a tirare fuori il meglio di ognuno per mettere in campo una squadra che sia sempre protagonista. El Maestro ammette, e nel 1991 non potrebbe fare altrimenti, di ispirarsi al Milan di Sacchi, anche se tiene a precisare come per lui non fosse Sacchi in sé l'elemento determinante. «Per me i veri protagonisti erano i Baresi, i Gullit, i Van Basten, giocatori all'altezza della proposta [di gioco ndr]».

Se in campionato gira che è una meraviglia, in coppa la squadra concede qualcosina, soprattutto quando è costretta a giocare in altura. Due sconfitte in Bolivia non pregiudicano il passaggio agli ottavi, dove il Boca supera nel doppio confronto il Corinthians. Ai quarti c'è il Flamengo che all'andata si impone al Maracanà e al ritorno si presenta alla Bombonera con il ramoscello d'ulivo. I giocatori brasiliani infatti entrano in campo portando uno striscione su cui si legge: «Maradona, Flamengo te ama, hoy y siempre». Ossequi che celano da una parte i tentativi dei brasiliani di arruffianarsi l'ostile pubblico argentino e dall'altro quello di mandare un messaggio a Diego, che pur sottoposto a squalifica in Italia, avrebbe comunque potuto trovare una sistemazione temporanea in Brasile. Gli applausi così guadagnati servono però a poco contro Batistuta, che segna un rigore in apertura e Diego Latorre, la cui doppietta ribalta il risultato dell'andata e porta il Boca in semifinale.

Una notte di ordinaria follia
Ultimo ostacolo prima di una finale che manca del 1979 è rappresentato dai cileni del Colo-Colo. Forte della vittoria dell'andata, El Maestro ostenta tranquillità alla vigilia di quella che appare come una normale semifinale di copppa ma che si rivelerà essere uno dei momenti più drammatici della sua carriera. Le immagini della partita, oltre a rendere bene l'idea del delirio e della quantità di carta igienica che si potevano trovare in uno stadio sudamericano 25 anni fa, fanno capire come nel secondo tempo i giocatori del Boca abbiano lasciato la testa negli spogliatoi. Al 20', alla destra dell'area del Boca, si vedono due loschi figuri scambiarsi il pallone. Sembrano guerrieri mapuche o forse fanno solo parte di una cover band degli Europe. Il primo, quello che si accentra e scarica per il compagno, è Gabriel Mendoza. È uno dei terzini sudamericani più promettenti dei primi anni Novanta e oggi fa l'assessore allo sport a Viña del Mar. Il secondo, quello che supera due avversari e crossa in mezzo ad altri due prima del goal di Ruben Martinez, è Marcelo Barticciotto: argentino di Avellaneda, nato il 1° gennaio 1967 ma registrato all'anagrafe un giorno prima per volere del padre che contava di fargli guadagnare un anno da dedicare agli studi universitari. Aveva fatto male i suoi calcoli però perché Barticciotto lascia anzitempo l'università per seguire i suoi interessi, tipo diventare una leggenda del Colo-Colo. Passano 120 secondi e Barticciotto fa 2-0. Una manciata di minuti e gli attaccanti cileni passeggiano in area con i difensori che stanno a guardare un colpo di tacco e un tiro di Jaime Pizarro che finisce di poco fuori. Le poche volte che il Boca riesce ad uscire dalla propria metà campo la palla cade presto preda dei difensori cileni che fanno ripartire l'azione colpendo soprattutto da destra. Gli xeneizes, a cui in fondo basterebbe un goal per tenere viva la speranza di qualificazione, sembrano prossimi alla resa quando Batistuta riceve palla sul vertice dell'area e senza guardare mette in mezzo dove, forse il caso, forse l'attenzione agli schemi di Tabarez, vuole che sbuchi Latorre che di testa accorcia le distanze. Il goal dà un po' di morale agli argentini che però hanno evidentemente meno benzina degli avversari.

Quando lo spettro dei supplementari (sì, proprio quello spettro lì) inizia ad aleggiare sul Monumental di Santiago, Martinez e Yañez del Colo-Colo chiudono un triangolo che taglia a metà la difesa del Boca. Ancor prima che Martinez possa battere a rete solo davanti al portiere, il Boca Juniors, lo staff, i tifosi a casa, hanno già tutti la mano alzata a chiamare il fuorigioco. Il guardalinee non batte ciglio, il goal è regolare. È l'inizio della corrida. In dieci minuti di ordinaria follia sudamericana succede quanto segue: in campo entra chiunque; i giocatori rilasciano interviste nel mezzo della partita; Tabarez aggredisce un uomo che risponde colpendolo al volto; le forze dell'ordine circondano il portiere e capitano del Boca, Navarro Montoya, mentre lancia il supporto di un microfono; giocatori argentini si avventano su persone non meglio identificate; Batistuta insegue un fotografo che lo respinge facendo roteare la sua macchina fotografica come se avesse in mano delle bolas; ancora Navarro Montoya, con i cani alle calcagna, si lancia su un malcapitato finito a suon di calci volanti, gomitate e pugni in testa da altri giocatori del Boca prima di uscire mestamente dall'inquadratura; Batistuta urla a qualcuno un inequivocabile «hijo de puta, hijo de puta!» per poi sferrare un calcio che finisce addosso a un carabiniere, il tutto mentre un insanguinato Tabarez cerca di trattenerlo per la maglia. La partita in qualche modo riprende ma dopo neanche un minuto un giocatore del Boca viene colpito da un oggetto. Dalla porta si vede un capellone che parte alla rincorsa, è il solito Navarro Montoya che con i pantaloni visibilmente lacerati dal morso di un cane, si precipita per protestare in faccia all'arbitro, prendere il pallone e scagliarlo in tribuna, guadagnandosi l'indiscusso titolo di idolo della serata. Se la caverà con un cartellino giallo. Quando si dice arbitraggio all'inglese...

Immaginate dieci minuti tutti così...
 
La serata si conclude con i cileni festanti che bruciano bandiere argentine e aggrediscono i tifosi ospiti mentre squadra e staff del Boca vengono portati in commissariato. A pagare il conto più salato è proprio Tabarez che viene arrestato e portato in cella insieme a un suo giocatore. Anni dopo Alfredo Graciani spiegherà come tutto sia nato da un uomo proveniente dalla panchina del Colo-Colo che avrebbe sbattuto a terra un giocatore del Boca mentre si affrettava a rimettere la palla al centro. Anche Carlos Navarro Montoya, l'assoluto protagonista di quella sera, conferma che la causa scatenante non fu tanto il goal subito, quanto le continue provocazioni dei giornalisti che ad ogni goal entravano a centinaia sul terreno di gioco insultando i giocatori argentini; ed è proprio Patricio Yañez, che con il Colo-Colo vincerà quella Libertadores, a riconoscere che se la stessa cosa fosse successa ai giorni nostri, il Monumental sarebbe rimasto chiuso per molto, molto tempo.

Rappresentazione allegorica della mattanza di Santiago. Olio su tela, 1991.

Tabarez non diventa presidente, ma quasi
Archiviata la notte al gabbio, Tabarez può concentrarsi solo sul campionato, dove la sua squadra avanza a grandi passi verso un successo annunciato. Il 23 giugno 1991, al Viejo Gasometro (quello Nuevo non era stato ancora costruito) San Lorenzo e Boca Juniors sono fermi sull'1-1. Sono i minuti finali e il Boca sta per battere una punizione. Il telecronista si chiede se quella sarà l'ultima partita in gialloblu di Diego Latorre, che in pratica è già della Fiorentina. Non presta la minima attenzione invece a Batistuta, che è lì di fianco e sta per sparare il pallone in curva. La partita si chiude così, con il Boca che torna campione d'Argentina dopo dieci anni e El Maestro che non è Presidente della Repubblica, ma quasi.

Carlos Navarro Montoya e il capitano Juan Simon con prole.

Una prima stagione da incorniciare quella di Tabarez, macchiata però sul più bello dal beffardo regolamento del campionato argentino che per la stagione 1990/91 prevede una finalissima tra le vincitrici del Torneo Apertura e Clausura. La sera dell'8 luglio, mentre El Maestro si arrovella su quale formazione mandare in campo per ribaltare l'1-0 subito all'andata contro il Newell's Old Boys del Loco Bielsa, Batistuta si trova a 1400 km di distanza, a Santiago del Cile, dove segna una doppietta contro il Venezuela nella partita di esordio della Coppa America. Privo di Bati e Latorre, Tabarez è costretto a improvvisare un attacco inedito formato da due giocatori acquistati per l'occasione. L'ex Universidad Católica Gerardo Reinoso e il brasiliano Gaucho arrivano infatti a Buenos Aires pochi giorni prima dello spareggio con il Newell's al solo scopo di rimpiazzare la coppia titolare impegnata con la Nazionale. Una responsabilità non da poco per i due attaccanti in affitto che, malgrado le poche ore trascorse alla Bombonera, sono ricordati con affetto dalla tifoseria. Reinoso pareggerà addirittura il goal dell'andata portando i suoi ai rigori che alla fine però premieranno il Newell's, riconosciuto ufficialmente quale unico vincitore di quel campionato.

La conferma
L'estate del Maestro passa tra la soddisfazione per il Clausura vinto e le inquietudini per un futuro senza Latorre. L'erede designato di Diego è da tempo promesso alla Fiorentina di Cecchi Gori che, dopo la partenza di Baggio, vuole regalare alla Curva Fiesole un nuovo numero 10 da amare. Anche Bati entra nell'affare ma è solo un comprimario. Per lui Cecchi Gori prevede un altro anno al Boca, il vero colpo è Latorre, o così dovrebbe essere. Nelle notti insonni passate davanti alla TV a guardare la Coppa America però si insinua nel presidente viola l'atroce dubbio di aver sbagliato tutto. Latorre non brilla, Batistuta trascina l'Argentina alla vittoria finale e la sua quotazione aumenta ogni giorno che passa. Indifferente ai 7 miliardi già sborsati, l'allenatore della Fiorentina Lazaroni preannuncia che Latorre partirà dalla panchina, la campagna abbonamenti langue e l'ambiente si sta abbacchiando. Parte il contrordine: Batistuta deve arrivare subito, Latorre può attendere, mentre a Buenos Aires si rischia la sommossa. Per non scontentare i tifosi Cecchi Gori cede ai ricatti del Boca e del procuratore Settimio Aloisio che oltre ai 12 miliardi per Batistuta, inserisce nel conto un sovrapprezzo di 500.000 dollari per il cartellino di Latorre, 400.000 dollari per il suo ingaggio e 2 miliardi e mezzo per l'acquisto di Antonio Mohamed come risarcimento per la partenza anticipata di Bati.

Mohamed, Bati e Latorre. Cecchi Gori se li sognava anche con la Marini nel letto.

Come è andata a finire da questa parte dell'oceano lo sappiamo bene, proprio quest'anno il vice-Renzi Nardella ha consegnato le chiavi della città di Firenze a Batistuta che in quell'estate di 25 anni fa lascia il Boca contro il parere di Tabarez. «Attenti. È difficile trovare un altro Batistuta», sono le parole con cui El Maestro timidamente tenta di opporsi alle leggi del mercato e allo strapotere dei club italiani, consapevole che Mohamed, a Bati, avrebbe potuto al massimo pulirgli le scarpe. Come spesso accade in Sudamerica, Tabarez si ritrova con una rosa uscita sfigurata dalla sessione estiva di calciomercato. Con la partenza di Graciani due terzi dell'attacco se ne sono andati, lasciando al deluso Latorre, che sperava di cominciare subito la sua avventura europea, il compito di segnare e far segnare la possente punta paraguayana Roberto Cabañas. A completare il tridente arriva dal Peñarol Sergio Manteca Martinez, che Tabarez volle come attaccante di scorta a Italia 90 e che al Boca diventerà un idolo. Un altro raccomandato è Ruben Pereira, che dopo il buon Mondiale con l'Uruguay e 13 dimenticabili presenze con la Cremonese, cede al richiamo del Maestro e lo raggiunge alla Bombonera. Il quadro dei nuovi arrivi è poi completato dal rosso terzino Carlos MacAllister e da un altro scarto della Serie A, ancora troppo fine per una bestia esotica come Gustavo Neffa.

Un saluto agli amici del River.
Tra le apparizioni di Maradona sulla tribuna della Bombonera e incontrollabili voci che vorrebbero il ritorno di Diego al Boca per volere dell'imprenditore Mauricio Macri, futuro presidente del club e attuale Presidente della Repubblica, la difficile stagione della riconferma inizia un po' a rilento con 4 punti nelle prime tre partite. La scarsa continuità delle altre squadre però viene incontro a Tabarez che alla decima giornata si presenta al Superclásico con un punto di vantaggio sui rivali del River Plate. Il Boca si fa vedere spesso nell'area avversaria e all'inizio del secondo tempo Sergio Martinez segna una gollonzo sugli sviluppi di un calcio di punizione. Segue uno degli show più in voga di quegli anni sui campi argentini, comprensiva di vertiginosa arrampicata sull'alambrado, la rete di separazione tra curva e terreno di gioco, maglie che volano via, perdite di tempo dell'ordine del quarto d'ora con spruzzata di cartellini finale. Se il Manteca si sta già guadagnando la fama di trascinatore è però il portiere Navarro Montoya a fare esplodere lo stadio quando al 66' spedisce in corner un dubbio rigore concesso al River. L'1-0 regge fino alla fine prolungando una striscia positiva che terminerà dopo otto partite nelle quali il Boca non subisce goal. La coppia Cabañas-Martinez non fa rimpiangere troppo i protagonisti dell'anno prima ma quando il traguardo è ormai raggiunto arrivano due sconfitte interne contro Independiente e Deportivo Español che rimettono tutto in discussione. Il River da parte sua è ammirevole per quanto riesca a buttare alle ortiche le innumerevoli occasioni di sorpasso che il calendario gli mette di fronte. Nel corso di tre settimane nelle quali gli uomini di Tabarez racimolano un solo punto, il River di Passarella riesce nell'impresa di non guadagnarne neanche uno. L'11 dicembre contro il Platense il match-ball è ancora incredibilmente tra le mani, anzi tra i piedi del Boca e del più inatteso dei suoi protagonisti. È infatti uno sconosciuto difensore di 19 anni, con meno di dieci presenze alle spalle, che al 20' del secondo tempo si trova il pallone tra i piedi e, un po' per gioco, un po' per incoscienza improvvisa una finta. Via uno, via due, via tre, dribbling sul quarto e tiro sotto la traversa prima che arrivi il quinto. Luis Medero segna un goal bellissimo con cui regala al Boca e al Maestro Tabarez il secondo titolo consecutivo e a se stesso un momento che vale un'onesta carriera passata tra Colon e San Lorenzo.

L'ultima di campionato contro il San Martin de Tucuman è il giorno della festa della Bombonera che come da consuetudine fa sfoggio di chilometri di carta igienica e tonnellate di papelitos che cadono a pioggia sul circo equestre che va in scena dopo il goal di Claudio Benetti. Una storia simile a quella di Medero, un altro sconosciuto che nel momento più importante si guadagna il diritto di scalare l'alambrado dal quale aizzare la gioia rabbiosa della curva, che in quell'istante aggiunge l'ennesima icona al pantheon del culto xeneize. Di lì a poco la polizia entrerà in campo, ci saranno feriti tra gli stessi calciatori, la rete di protezione verrà divelta e cadrà addosso alla porta... sì, gli argentini sanno decisamente come divertirsi. Lo deve aver imparato anche Tabarez che, se nella prima stagione fa breccia nel cuore dei tifosi del Boca, nella seconda entra definitivamente nella storia del club, che si arricchisce ulteriormente con il successo continentale in Copa Master...

Quando esci per una serata tranquilla ma poi il Boca vince il campionato.

Momento, momento, momento... che vi lascio con questo atroce dubbio? Che cosa ca**o è la Copa Master, si chiederanno i temerari che hanno resistito fino a questo punto. Ecco, si tratta dell'ennesima elucubrazione della CONMEBOL che a cavallo degli anni Ottanta e Novanta pensa bene di mettere di fronte le squadre vincitrici delle ultime quattro edizioni della Supercopa Sudamericana, ovvero un torneo che riuniva a sua volta le squadre che avevano vinto almeno una volta la Libertadores. Un particolare di dubbio interesse perfino per questo blog ma che non fa altro che aggiungere un altro po' di nostalgia alla storia di Oscar Washington Tabarez.

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sabato 26 novembre 2016

Caro Maestro/II

L'inizio della storia d'amore con la Celeste, la Coppa America, Italia 90, una notte quasi magica all'Olimpico. Tutto nella seconda puntata del nostro sceneggiato storico con Dustin Hoffman nella parte del Maestro Tabarez. 


Il primo bacio
Mentre da noi si chiudono gli ultimi ombrelloni, l'estate australe del 1988 comincia a scaldare la baia di Montevideo. Oscar Washington ha 41 anni, è giovane, colto ed elegante. Ha già una Coppa Libertadores in bacheca e si appresta a condurre ai successivi Mondiali la Nazionale che da calciatore aveva potuto osservare solo da spettatore. Prima però c’è una Coppa America da preparare e la pesante eredità lasciata da Roberto Fleitas e dal discusso Omar Borras, vincitori delle ultime due edizioni, da non far rimpiangere. Il primo bacio della lunga storia d’amore tra El Maestro e la Celeste ha luogo il 27 settembre 1988, allo Stadio Defensores del Chaco, ad Asunción, Paraguay. Si gioca la Copa Boquerón, uno di quegli strani tornei con squadre invitate a caso in cui non era insolito imbattersi fino a metà degli Novanta e che oggi un po’ ci mancano. Di fronte al nuovo Uruguay di Tabarez c’è l’Ecuador, che in mezzo al campo schiera già un giovane Alex Aguinaga. La partita si mette bene con il goal di Gustavo Dalto. A un quarto d’ora dalla fine Jimmy Izquierdo pareggia. I rigori sembrano sempre più probabili quando a 5 minuti dalla fine José Oscar Herrera regala la vittoria ai suoi. Una vittoria tutta di Tabarez, firmata da Dalto, suo giocatore ai tempi del Danubio, e da “Pepe” Herrera, omonimo del Profe e figlio prediletto al Peñarol prima e al Cagliari poi. Due giorni dopo sullo stesso campo c’è il Paraguay che alla fine del primo tempo segna tre goal in quattro minuti: risultato finale 3-1. El Maestro ha già la testa in Brasile.

La Coppa America
Il Brasile ospita nell’estate 1989 una Coppa America rinnovata, che abbandona la vecchia formula che qualificava la squadra campione in carica direttamente alle semifinali, sostituendola con una egualmente assurda a doppio girone con gruppi da cinque squadre, costrette a giocare ogni due giorni per accedere a un altro girone all’italiana da quattro squadre. Tabarez lancia qualche giovane come i ventenni Ruben Da Silva e Ruben Pereira, entrambi Ruben ed entrambi passati senza troppa fortuna in Italia. L’ossatura della squadra rimane però quella consolidatasi con la gestione Borras, con El Principe Francescoli a illuminare, assistito da elementi di esperienza come Ruben Paz e Antonio Alzamendi. Più che rivoluzionare in questa fase Tabarez si preoccupa soprattutto di ricucire, riguadagnando alla causa uomini importanti come Ruben Sosa, che il Mondiale in Messico l'aveva visto in televisione, e Hugo De Leon, roccioso centrale difensivo inviso al precedente allenatore per le sue simpatie sinistrorse.

Tabarez è quanto di più lontano ci sia dal suo predecessore, anche fisicamente. I completi e il trenchcoat alla Humphrey Bogart del Maestro sono ben diversi dalle tute attillate del pingue Borras. La differenza oltre che di stile però è soprattutto ideologica. Se il vulcanico Borras era infatti vissuto da una parte degli uruguayani come l'ultimo, indigesto residuo della dittatura miliare cominciata nel 1973 e terminata solo nel 1985, la calma saggia e serafica di Tabarez appare come una ventata di novità e speranza in un Paese che ha riscoperto da poco la democrazia e dove dopo 12 anni di clandestinità è tornato a farsi sentire il Frente Amplio, la storica coalizione di sinistra in cui milita tuttora l'ex presidente José Mujica. Moderato ma dichiaratamente di sinistra, amante dello scrittore dissidente Eduardo Galeano, a chi gli fa visita Tabarez mostra con orgoglio la grande scritta che campeggia all'entrata della sua residenza di Montevideo, uno dei più celebri aforismi di Ernesto “Che” Guevara: «Hay que endurecerse sin perder jamás la ternura», che come i poster nelle librerie Feltrinelli ci hanno insegnato significa: «Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza.»

Tra speranze e scetticismo l’avventura comincia nel peggiore dei modi. Strafavoriti, contro l’Ecuador gli uomini di Tabarez lasciano per larghi tratti l’iniziativa agli avversari che al 90′ puniscono la presunzione uruguayana con il goal di Ermen Benitez, padre dello sfortunato Christian, giocatore visto anche in Europa con il Birmingham e scomparso nel 2013 per un attacco cardiaco. Due giorni dopo contro la Bolivia, Tabarez decide di dare più spazio a Ruben Sosa, reduce dalla sua prima stagione italiana con la Lazio. Privo di Francescoli, già assente nella partita precedente, affida le chiavi del centrocampo a Ruben Paz e Pablo Bengoechea. A fare le spese di questi stravolgimenti tattici è Pato Aguilera, che da lì in avanti vedrà il campo con il contagocce. A lanciare la riscossa “celeste” però è Herrera, che sulla fascia destra fa quello che vuole e innesca l’azione che porta alla gran botta di Ostolaza prima e al tap-in di Sosa dopo. A chiudere ci pensa ancora Ostolaza di testa. Il ruvido centrocampista che Tabarez svezzò in gioventù al Bella Vista è il mattatore della serata ma la vera prestazione da incorniciare è quella di Herrera, un giocatore depositatosi nella mia memoria come niente più che una figurina Panini e che è riemerso come un fenomeno durante la scrittura di questo post. Nelle vecchie VHS che tifosi uruguayani e cagliaritani hanno riversato su Youtube ho scoperto un difensore dalle doti tecniche più che buone, capace di saltare l’uomo, portato all’inserimento e con senso del goal (che goal è a 0.37?!), il tutto completato da un destro che ne faceva uno specialista dei calci piazzati. Negli anni Novanta uno come lui passava la carriera tra Cagliari e Bergamo, oggi la fascia destra del Manchester City potrebbe essere sua.

Solo ora capisco le gioie che devi aver regalato al Fantacalcio.

Contro il Cile è di nuovo 3-0 e il ritorno in campo con goal di Francescoli rimette definitivamente in corsa l’Uruguay per la qualificazione. Nella partita finale del girone Tabarez ha di fronte l’Argentina di Bilardo, campione del mondo ma affetta dalla sua cronica “Maradona-dipendenza”. L’ingresso di Caniggia per Burruchaga non provoca sconvolgimenti, fino al 69′ quando... indovinate chi? Diego, ovviamente, pesca il biondo attaccante allora in forza al Verona, colpevolmente lasciato libero di calciare in modo tutt’altro che irresistibile. Il portiere Zeoli fa il resto. L’Argentina vince e passa al secondo turno, l’Uruguay perde e Tabarez accende un cero perché il Cile batta l’Ecuador senza troppi goal nell'ultima gara del girone. La Roja farà il suo dovere e l’Uruguay passerà per la differenza reti. El Maestro sa di avere un debito con la fortuna.

È la volta del secondo turno, il girone finale che decide tutto. Un po’ per caso l’Uruguay si trova per le mani l'occasione di ricominciare da capo un torneo completamente nuovo, a partire dalle condizioni ambientali che passano dai 12.000 spettatori di media di Goiania ai 100.000 del Maracanà. La prima occasione di Tabarez per onorare il suo debito con la fortuna è contro il Paraguay, squadra tosta, che è riuscita a passare come prima del girone davanti al Brasile padrone di casa. Ora fate un respiro, non vi chiedo di guardarlo integralmente, io stesso ho dovuto tagliare la dose per la troppa purezza, quello che vi consiglio però è di passare qualche minuto in silenzio, a capo scoperto, in beata contemplazione della fulgida manifestazione di nostalgia che vado ora a linkarvi.


Avete seguito il mio consiglio? Mi auguro di sì, perché se siete capitati su questo blog, se magari siete pure recidivi e non è neanche la prima volta che vi ci addentrate, questa è la medicina buona di cui avete bisogno. La medicina che distillo per voi che come il sottoscritto siete persone orribili, tossici del cazzo che si bagnano come delle tredicenni a un concerto di Fedez a sentire il giovane Massimo Marianella che su Telecapodistria parla di Chilavert che rifiuta la Nazionale perché non vuole fare la riserva, mentre Fabio Capello elogia le doti fisiche di Gustavo Neffa, l'attaccante paraguayano ex Cremonese a cui «giassò che sai giassai che» il nostro Neffa deve il suo nome d'arte.

Il dovere di cronaca mi impone di darmi una ripulita e tornare alle vicende di campo di Oscar Washington e del suo Uruguay, che dopo qualche minuto di affanno, piano piano, prende piede come poche volte si era visto. Francescoli sembra in giornata sì, Sosa inizia a ispirare compagni non sempre all’altezza, Ostolaza e Perdomo garantiscono il fabbisogno quotidiano di garra charrúa. Intanto il possesso palla del Paraguay si impantana a metà campo. Intorno alla mezz’ora un lancio di Perdomo, a cui Boskov avrebbe permesso al massimo di giocare in giardino con il cane, pesca Ruben Sosa che sembra non aspettare altro. La folle uscita del Gato Fernandez non fa che rendergli più facile il compito: palla in mezzo per l’accorrente Francescoli che si tuffa a porta vuota. L’1-0 non fa che favorire l’inerzia della partita, con il Paraguay che fa circolare a lungo il pallone senza creare grossi pericoli e anzi, si espone al gioco degli avversari, basato sulla velocità degli esterni e sul contropiede: d’altra parte si sa, l’Uruguay è la squadra sudamericana più europea. La "Celeste" inizia a subire e con il risultato ancora in bilico Tabarez si prende la responsabilità di sostituire un Francescoli che nel secondo tempo è andato spegnendosi. La pressione del Paraguay non dà tregua a Zeoli che però è in giornata straordinaria. L’asino che solo qualche giorno prima aveva regalato la vittoria all’Argentina, la riserva che si trovava lì solo perché il titolare Alvez si era rotto una gamba giocando a basket, ha lasciato il posto a un felino capace di tre autentici miracoli. La partita verso la fine si fa divertente, con il Paraguay che si riversa in massa nell’area uruguayana e lascia spazi enormi per le ripartenze dell’incontenibile Sosa. È proprio il Principito a servire Alzamendi per il 2-0 che di fatto chiude il match. C’è giusto il tempo per un contropiede d’altri tempi, con l’Uruguay in superiorità numerica di 5 contro 2 e Ruben Paz che batte il Gato Fernandez per la terza volta.

Se osserviamo la parabola di Tabarez alla guida della sua Nazionale possiamo notare tre picchi i quali, se si esclude la Coppa America del 1995, corrispondono grosso modo ai momenti di massimo splendore del calcio uruguayano degli ultimi trent’anni. Il primo di questi picchi, quello che fa entrare El Maestro nel cuore dei suoi connazionali, cade la sera del 14 luglio 1989. Il Maracanà ospita la riedizione a parti invertite del match di pochi giorni prima tra un Uruguay rivitalizzato dalla vittoria con il Paraguay e un’Argentina uscita asfalta dal Brasile nel Clásico di due giorni prima. Sul finire del primo tempo Paz e Francescoli si destreggiano con passaggi nello stretto sull’out di sinistra, la palla finisce tra i piedi del terzino Dominguez che lancia al limite dell’area in direzione di Alzamendi. A questo punto succede l’imponderabile con Sensini che anticipa agevolmente Alzamendi e poi pensa bene di appoggiare indietro verso... Ruben Sosa che dribbla Pumpido e deposita in rete. Anche da questi dettagli si percepisce l’incredibile stato di grazia nel quale si trova Sosa e che raggiunge il culmine qualche minuto dopo. Prima però c’è un lampo di Maradona che, impossibilitato a fare altro, trasforma un’innocua palla che ballonzola a centrocampo in un missile Saturn V che si stampa sulla traversa. Un breve interludio nello show di Ruben Sosa che nel secondo tempo infila in contropiede la difesa argentina e chiude la partita. Rivedendolo anche oggi, quel goal ci parla di una superiorità schiacciante dell’attaccante della Lazio, che con una finta di corpo fa fuori i suoi marcatori prima di bruciarli con un’accelerazione inarrestabile. Nestor Clausen, in un ultimo disperato tentativo di toccare la palla, viene addirittura sbalzato via dalla furia del Principito. L’acerrimo rivale è stato sconfitto, le critiche mosse a Tabarez in apertura di torneo, che lo accusavano di aver sbagliato preparazione, dissolte. Con il senno di poi la notte di Rio è il momento più alto della prima gestione Tabarez.

Ruben Sosa: miglior giocatore sudamericano 1989.

Nonostante la formula del torneo preveda un girone all’italiana in luogo di una finale secca, l’inaspettata vittoria dell’Uruguay contro l’Argentina regala ai 150.000 del Maracanà la tensione di una finale vera e propria. Uruguay e Brasile sono entrambe a 4 punti, con i padroni di casa che in virtù della migliore differenza reti possono contare su due risultati su tre... esattamente come 39 anni prima. Il Maracanzo non sembra aver insegnato niente ai brasiliani. La partita prende la piega consueta, con Tabarez che invita i suoi ad aspettare nella propria metà campo in attesa del varco giusto per colpire in contropiede. Il Brasile però non è il Paraguay e quel che è peggio l’Uruguay in campo non è quello di due giorni prima. Francescoli si incarta in dribbling velleitari, Ruben Sosa è praticamente inesistente e così diventa solo una questione di tempo prima che un triangolo chiuso da Mazinho e Bebeto si trasformi in un cross per Romario che indisturbato segna il goal della vittoria. Il sogno si infrange proprio quando l’inatteso traguardo del terzo titolo consecutivo sembrava a portata di mano. C’è delusione tra i charrúas ma anche la convinzione che Tabarez sia l’uomo giusto per guidare l’imminente campagna italiana.

Italia 90
Passa poco più di un mese e la posta in palio è già altissima. A Lima l’Uruguay vicecampione continentale è già in campo per la prima partita di qualificazione ai Mondiali. Niente a che vedere con l’interminabile girone unico a cui siamo abituati oggi, all’epoca ci si giocava tutto in un mese di passione in tre gironi da tre squadre. Non c’erano scappatoie, o vincevi il girone o stavi a casa. L’inizio è incoraggiante: un 2-0 con un Perù che si preannuncia la cenerentola del gruppo. Il vero ostacolo si presenta però una settimana dopo e ha l’aria rarefatta dei 3600 metri di altitudine dello Stadio Hernando Siles di La Paz, dove la Bolivia è solita surclassare gli avversari sul piano atletico. Se aggiungiamo che quella Bolivia era anche una buona squadra, con alcuni degli elementi che qualche anno più tardi porteranno alla storica partecipazione a USA 94, non è così inspiegabile la sbandata degli uomini di Tabarez, che perdono 2-1 e sono costretti a puntare tutto sulla partita di ritorno. La Bolivia è a punteggio pieno e la pressione è tutta sull’Uruguay. Alla mezz’ora uno che mi sembra essere Ostolaza fa partire un lancio che scavalca la difesa boliviana. Lì appostato c’è Ruben Sosa che con freddezza porta in vantaggio i suoi. Appena otto minuti dopo Francescoli segna il 2-0 e fa esplodere il Centenario. Contro il Perù, nell’ultima partita del girone l’Uruguay ha a disposizione solo un risultato. Fortunatamente la stella di Sosa, che in Coppa America si era eclissata proprio nel momento della verità, brilla più splendente che mai e regala a Tabarez un altro successo sul filo di lana.

Sei mesi di esperimenti consegnano al Maestro una squadra che alla vigilia dei Mondiali scopre di non potersi discostare troppo dall’assetto trovato l’estate precedente in Coppa America. Persino Perdomo, incappato in una stagione disastrosa al Genoa, in mezzo al centrocampo di Tabarez trova la sua ragion d’essere come schermo davanti alla difesa. La nota più positiva è senza dubbio l’esplosione di Daniel Fonseca, attaccante del Nacional che si guadagna un posto in pianta stabile nel gruppo, dove è tornato anche Fernando Alvez che si è ripreso il posto tra i pali soffiatogli prima da Zeoli e poi dal baffuto Eduardo Pereira. Nell’estenuante ritiro di quasi due mesi voluto da El Maestro e culminato con l’arrivo al centro sportivo di Veronello, non mancano aneddoti per i palati nostalgici, come il 4-1 che l’Uruguay infligge al Padova, che schiera tra gli altri Benarrivo, Di Livio, Pippo Maniero e Giancarlo Camolese, oppure il doppio confronto amichevole con il Chievo, allora anonima squadra di C1, che nella prima partita fa giocare i portieri dell’Uruguay!

La “rivoluzione tranquilla” che Tabarez pazientemente orchestra da due anni nel tentativo di cambiare l’immagine del calcio uruguayano, affrancandolo dallo stereotipo del gioco sporco, dal luogo comune della garra quale unica arma a disposizione del piccolo Paese platense per rivaleggiare con gli ingombranti vicini sudamericani e con gli squadroni europei, si è vista solo a tratti. In un calderone di vittorie risicate e passaggi di turno miracolosi ci sono però due episodi in cui il bel gioco predicato dal Maestro riesce a manifestarsi, finendo per alimentare ambizioni fin troppo smisurate da parte dell’opinione pubblica uruguayana. Il pirotecnico 3-3 di Stoccarda contro la Germania futura campione del mondo e la vittoria a Wembley sull’Inghilterra arrivano proprio a ridosso dell’esordio mondiale, regalando l’immagine di una squadra realmente in grado di competere sul piano tecnico ai più alti livelli. Per le strade di Montevideo si mormora neanche troppo sommessamente di semifinale, traguardo che manca dal 1970, i più ottimisti giurano di vedere in Francescoli e Sosa gli eredi di Andrade e Schiaffino, di Nasazzi e Varela, gli eroi mitici di un’epoca di cui già allora si sentivano solo echi lontani. Italia 90 sarà l’ultimo Mondiale in cui il popolo uruguayano nutrirà vere ambizioni di vittoria.

Il 13 giugno allo Stadio Friuli di Udine non è più il tempo delle previsioni, c’è la Spagna di Luis Suarez da affrontare e 2 punti da prendere. Tabarez manda in campo i suoi uomini di fiducia, con Ruben Pereira preferito ad Ostolaza. L’inizio è quello classico dell’Uruguay, chiuso, attendista, preoccupato di far sfogare gli avversari e di ripartire in contropiede. Neanche il cartellino giallo d’ordinanza può mancare, con Perdomo già ammonito dopo 10 minuti di gioco. Ruben Sosa getta il copione una prima volta quando a metà del primo tempo parte da dietro, semina tre avversari e al limite dell’area serve Alzamendi che impegna Zubizzarreta, salvo solo con l’aiuto della traversa. Il secondo tempo è un monologo “celeste” dove lentamente si dispiega sul terreno di gioco il verbo di Tabarez. L’Uruguay è in pieno controllo della partita e chiude la Spagna nella propria metà campo. Al 70′ Herrera intercetta un pallone proveniente da calcio d’angolo e la indirizza alla sinistra di Zubizzarreta. Solo il braccio di Francisco Villarroya riesce a evitare che il pallone raggiunga il fondo della rete. L’arbitro fischia e indica il dischetto, solo un attimo di attesa prima che il destino giunga al suo naturale compimento: il brutto anatroccolo che diventa finalmente cigno e veleggia verso la gloria. C’era scritto più o meno questo sul pallone che Ruben Sosa si incarica di tirare, prima di stracciare la pagina del lieto fine e sparare il rigore in curva. Ancora oggi, quando in un bar o sul taxi che dall’aeroporto di Montevideo vi porta all’albergo, la discussione cade sui Mondiali di calcio, non è insolito incontrare nel vostro interlocutore la delusione ancora viva per quel rigore di 26 anni fa. Per gli uruguayani si tratta della chiave di volta che trasforma  un’avventura da vivere con la voglia di stupire in una marcia faticosa verso il secondo turno. La “rivoluzione tranquilla” di Tabarez è morta prima di cominciare, o almeno così sembra.

13 giugno 1990: una ferita ancora aperta.

Quando l’Uruguay scende in campo a Verona contro il Belgio ha il peso del rigore di quattro giorni prima, un punto in meno di quanto meritato e, a differenza dell’estate precedente, un credito con la fortuna. È proprio la dea bendata che, in virtù di qualche insondabile legge di compensazione, altrimenti detta karma, sembra aver voltato le spalle ai ragazzi di Tabarez. La squadra parte bene con Francescoli che porta via il pallone a Scifo e si invola verso l’area avversaria prima di tirare alto. Le belle sensazioni avute contro la Spagna però vengono spazzate via in una manciata di minuti. Al 16′ il capitano del Belgio Jan Ceulemans parte da centrocampo per sviluppare un’azione in velocità che mette in evidenza tutti i punti deboli della squadra di Tabarez, dall’allegria in marcatura di Perdomo alla disattenzione di ali e attaccanti, che sulla sinistra lasciano solo il povero Herrera contro tre avversari. De Wolf è così libero di crossare per Leo Clijsters che, dimenticato dalla difesa, non ha difficoltà a colpire di testa: 1-0. Neanche il tempo di rialzarsi che la stellina Scifo, senza incontrare la benché minima pressione da parte dei centrocampisti, dalla tre quarti scaraventa una minella che si infila alla destra di Alvez. Tramortiti, gli uruguayani cedono ai loro naturali istinti con Sosa che si becca il giallo per uno sgambetto a Demol e poi va a pressare Preud’Homme che non aspetta altro per buttarsi a terra e perdere un po’ di tempo: insomma tutto ciò che Tabarez ha sempre stigmatizzato. Sempre il Principito si produce in un tuffo truffaldino che costa l’espulsione a Gerets. L'uomo in più però serve a poco quando all’inizio del secondo tempo Ceulemans si trova davanti un’autostrada che porta dritto verso il 3-0. A questo punto il Belgio si chiude e amministra. L’ingresso di Aguilera al posto di Alzamendi dà un po’ di vivacità a una squadra che almeno per numero di tiri in porta qualcosa in più meriterebbe. Il goal di Bengoechea arriva troppo tardi, il Mondiale dell’Uruguay è già al bivio decisivo.

Contro la Corea del Sud non si può sbagliare, una vittoria garantirebbe al massimo un ripescaggio e anche in caso di passaggio del turno si andrebbe incontro al proibitivo accoppiamento con l’Italia. In un grigio pomeriggio friulano non è una semplice partita di calcio ad andare in scena ma il dramma nazional-popolare di un Paese che ad ogni tiro, ad ogni azione che pazientemente i piedi di Francescoli, Paz, De Leon costruiscono, vive la differenza tra tutto e niente, tra la vita e la morte. Come già dimostrato contro Belgio e Spagna, i coreani vendono cara la pelle e non si tirano indietro quando c’è da menare. Gli attaccanti dell’Uruguay invece danno vita al solito, deprimente spettacolo già visto nelle prime due uscite: una serie interminabile di tiri, da vicino, da lontano, da calcio piazzato che finiscono irrimediabilmente fuori o tra le braccia del portiere. Come è solito fare quando la situazione non si sblocca, Tabarez gioca la carta Aguilera... ma niente. Al 64′ prova a dare una scossa ai suoi sostituendo Sosa con l’esordiente Fonseca. Dopo 90 minuti l’Uruguay è, come si suol dire, sulla scaletta dell’aereo, direzione Montevideo, vergogna, oblio. In Plaza Independencia c’è già una croce su cui si leggono chiare le iniziali O.W.T. Fonseca, proprio lo sbarbato coi denti da coniglio che Tabarez ha mandato in campo tentando il tutto per tutto, si guadagna una punizione sulla destra dell’area coreana. El Maestro si gioca due anni di lavoro, di sforzi per «rinnovare l’immagine del calcio uruguayano nel mondo», in una mischia d’area. Quando il pallone si alza da terra e sorvola le teste dei giocatori in campo però è come se portasse con sé una brezza leggera, capace di spazzare via per un momento tutte le polemiche sorte nelle settimane precedenti. Il mucchio selvaggio formatosi in mezzo all’area di rigore rimane immobile, quasi ad accompagnare l’ingresso nella storia di Daniel Fonseca (in fuorigioco peraltro). La sofferenza di 90 minuti è cancellata in un istante, l'Uruguay torna a vincere in un Mondiale dopo vent’anni e per qualche ora l’aria pesante che da giorni circola nel ritiro di Verona si dirada. La panchina festeggia, dirigenti e membri dello staff esultano, eppure Tabarez non si scompone, è rigido, sembra a disagio mentre riceve gli abbracci dei suoi collaboratori, quasi presagisse la tempesta che lo aspetta lui e la squadra.

Oscar, sta senza pensieri.

Come detto è un attimo di gioia incontenibile, questione di ore, poi le nebbie tornano ad addensarsi nella testa di Tabarez. Il CT uruguayano ha bene in mente le dimensioni della sfida che ha davanti: incontrare la squadra padrona di casa, la più forte per quello che si è visto finora, dovendo far fronte ad un evidente decadimento fisico dei propri giocatori, usciti svuotati anche dal punto di vista mentale dal match con la Corea. Dall’ambiente filtrano dichiarazioni di soddisfazione per il passaggio del turno, quasi fosse quello l’obiettivo stabilito in partenza... della serie la volpe che non arriva all’uva. Le parole degli stessi membri dello staff tradiscono rassegnazione, dal preparatore atletico Esteban Gesto, l’unico con cui Tabarez abbia mai tradito El Profe, che ammette candidamente la stanchezza dei giocatori, al cuoco della spedizione che lamenta come neanche una grigliata di churrasco riesca a risvegliare il loro appetito. C’è una frase tra le tante dette nei giorni precedenti la partita con la Corea che però fa capire quanto Tabarez riponesse fiducia nel gruppo a sua disposizione, o almeno quanto fingesse di averla: «Se giochiamo con il collettivo possiamo superare qualsiasi avversario. Se vogliamo esaltare le individualità, ci faremo battere anche dalla Corea». Nelle menti, ma soprattutto nei cuori charrúas inizia infatti a farsi strada un pensiero proibito, a metà strada tra la speranza e il training autogeno e che trova fondamento nelle prestazioni fornite qualche mese prima contro Germania e Inghilterra, nella partita contro l’Argentina dell’ultima Coppa America, nella stessa amichevole giocata un anno prima contro l’Italia. All’indomani della sofferta vittoria con la Corea è lo stesso Tabarez che carica i suoi premendo su questo tasto: «Andiamo alla seconda fase con la consapevolezza di affrontare squadre più preparate e più potenti. Ma non ci preoccupa. Solo nelle situazioni limite possiamo mostrare il nostro vero volto». Gli fa eco pochi giorni dopo Enzo Francescoli, che ai microfoni RAI ribadisce: «L’Uruguay gioca meglio contro le grandi squadre». Consapevole di dover essere più psicoterapeuta che tecnico, il Maestro risparmia i fisici provati dei suoi uomini, passando l’ultimo giorno di preparazione a spiegare schemi sulla lavagna magnetica e astenendosi da faticosi allenamenti pomeridiani.

Una notte quasi magica
A mezzogiorno del 24 giugno decolla da Villafranca il charter che porta la sgangherata banda di Tabarez a Roma, dove la nostra storia è iniziata. L’opinione pubblica italiana è tranquilla, preoccupata più dall’infortunio di Donadoni e dal dualismo Berti-Ancelotti che da un avversario che ha soffiato all’ultimo minuto il posto di quarta migliore terza alla Scozia. Dall’altra parte invece la recondita speranza in un’impresa ai confini della realtà appare ancora più remota al momento della lettura delle formazioni. Nella partita più importante della sua carriera Tabarez lascia fuori Herrera, Paz e Ruben Sosa! Tra le delusioni maggiori di quel Mondiale, i talenti di Paz e soprattutto di Sosa vengono sacrificati sull’altare dell’efficienza massima che El Maestro chiede ai suoi allievi.

Tempo 20 secondi e l’Italia sembra aver già trovato il modo di aggirare il fortino eretto da Tabarez, con De Napoli che coglie più di un avversario fuori posizione al momento di servire Schillaci. Da una sua sponda per Baggio nasce la prima palla goal che Totò fallisce al termine di una bella girata. Altro brivido qualche minuto dopo con De Leon che si perde Schillaci e Dominguez che innesca una pericolosa carambola davanti al portiere. Baggio poi segna su una generosa punizione concessa dall’arbitro, peccato non si accorga che è di seconda.

Il primo tempo sembra non raccontare molto più di questo: un netto predominio italiano a fronte di un Uruguay rintanato nella propria metà campo. Quello che forse sfugge ai più però è la guerra di logoramento che Tabarez ha coscientemente programmato alla vigilia e che si riverbera negli errori e nei falli commessi dagli “Azzurri” sul finire di tempo. Tabarez ha messo da parte l’estro di alcuni dei suoi maggiori talenti in luogo di un più compatto 4-4-2, dove all’“estroverso” Herrera viene preferito il più coperto Saldanha, l’imprevedibile Sosa ha lasciato il posto all’altruista Fonseca, più in forma e incline al ripiegamento, e i piedi buoni di Paz sono stati sostituiti dal fisico di Ruben Pereira. Uniche sporadiche digressioni dallo spartito del Maestro sono lo svariare di Francescoli alle spalle delle punte e la velocità di Pato Aguilera, la cui presenza dal primo minuto fa capire come il CT intenda servirsi di ripartenze fulminee per stendere il Golia “azzurro”.

Totò, Gutierrez e Saldanha in un quadro rinascimentale.

A fotografare bene la situazione è Sandro Mazzola, seconda voce di Pizzul, che interpreta il malumore del pubblico dell’Olimpico come riflesso della mancata pressione che, dopo il primo quarto d’ora, ci si sarebbe attesi dall’Italia per tutti i 45 minuti di gioco. «È difficile rendersi conto che è l’avversario che non te lo permette», conclude Sandrino. In apertura di secondo tempo la foresta di mangrovie che Tabarez ha piantato nella propria metà campo appare più fitta di prima, inducendo all’errore gli stessi giocatori italiani. Da un lancio sbagliato di De Napoli parte un’azione di Fonseca che dopo aver superato Maldini e Baresi riesce a mettere il pallone in area: «non male questo Fonseca, giocatore ventunenne che interessa al Cagliari» dice Bruno Pizzul dell’attaccante del Nacional, il cui trasferimento era stato già definito una decina di giorni prima. Vicini toglie Berti e butta dentro il pennellone Serena per cercare almeno un punto di riferimento in mezzo alla selva uruguayana. Gli fa eco poco dopo Tabarez, che manda in campo il grande escluso della vigilia, Ruben Sosa, al posto del poco incisivo Aguilera. Al 58′ una punizione ad effetto di De Agostini che ricorda non poco la prodezza di Roberto Carlos contro la Francia, trova un Alvez stoico, che a costo di rompersi braccio e spalla sinistra, salva il risultato.

Oh, non sarà Roberto Carlos, ma guarda come gira...

Con il passare del tempo le squadre si allungano e anche la disciplina difensiva dell’Uruguay a tratti viene meno. Le sponde di Serena dal cuore della retroguardia uruguayana, rendono giocabili palloni che prima sarebbero stati facile preda degli uomini di Tabarez, in costante (ed estenuante) raddoppio sul portatore di palla. Sette minuti dopo, quando la muraglia “celeste” inizia a mostrare le prime crepe, Baggio addomestica un rinvio di Zenga e di prima serve Serena. È nell’incredeibile rapidità di esecuzione del “Codino” che i nostri attaccanti guadagnano il tempo di vantaggio necessario a sorprendere la retroguardia uruguayana che, totalmente disallineata, concede a Serena la profondità per servire Schillaci che di prima intenzione telecomanda un missile a infrarossi che si alza e poi si abbassa al sentire il calore della rete, giusto in tempo per scavalcare il portiere e infilarsi sotto la traversa.

A questo punto il Mondiale dell’Uruguay può dirsi concluso. Costretto a fare la partita, con Sosa ancora lontano parente di quello che solo un anno prima vinceva il titolo di miglior giocatore del Sudamerica e l’irritante leziosità di Francescoli, che non mi stupirei avesse provato il dribbling anche nel tunnel che porta agli spogliatoi, Tabarez vede i suoi piani stravolti. In controtendenza con il luogo comune e con una certa scuola di pensiero che vede nella fallosità una componente necessaria, oltre che tradizionale, del calcio urugayano, la squadra di Tabarez è la meno fallosa della prima fase, con 86 falli subiti e solo 41 commessi. Non un caso per chi conosce El Maestro, che ha letto Galeano e sa bene come il miracolo del Maracanazo, più che della garra, fu prima di tutto frutto di un gioco capace di costringere il Brasile a 21 falli contro gli 11 degli uruguayani. In quella partita contro l’Italia Tabarez fa di necessità virtù, rinunciando ai suoi ambiziosi piani di rinnovamento e rispolverando la vecchia immagine di squadra scorbutica e scaltra che la “Celeste” si è trovata appiccicata addosso con il passare degli anni. All’inizio del secondo tempo l’Uruguay ha già 26 falli al suo attivo e quando Vicini inserisce Vierchowod per Baggio, la speculare contromossa di Tabarez: fuori Ostolaza, dentro Alzamendi a fare il terzo attaccante, è il segnale della resa. El Maestro non ha più carte a propria disposizione e l’ingresso dell’ennesimo attaccante è solo la conferma di come l’impresa finemente programmata e accarezzata per più di un’ora sia ora solo affidata al caso, alla fortuna, al colpo individuale.
Le Nazionali di Tabarez sono tra le meno fallose nella sanguinosa storia del calcio uruguayano.

Controvoglia, l’Uruguay mette il muso fuori dalla propria metà campo dove trova un’Italia che ovviamente pensa solo a difendere e ripartire. I tiri da fuori di Perdomo sono frecce spuntate che si infrangono contro un blindato. A sette minuti dalla fine Giannini batte una punizione dalla tre quarti di destra, l’unico italiano in area è Aldo Serena, che sfugge alla marcatura di tre difensori che danno quasi l’impressione di disinteressarsi di lui. A Serena basta sgomitare un po’ con Gutierrez per segnare di testa il 2-0 e festeggiare il più dolce dei compleanni.

Tra gli “olè” che accompagnano il palleggio degli “Azzurri” e il pubblico che abbandona per tempo l’Olimpico finisce l’avventura di Tabarez sulla panchina dell’Uruguay. Il primo, intenso capitolo della storia d’amore tra un austero filosofo che ha deciso di insegnare calcio e una signora non più nel fiore degli anni ma il cui abito celeste non smette di esaltarne l’aristocratica bellezza.

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giovedì 17 novembre 2016

Caro Maestro/I

Non molti ci avranno fatto caso, soprattutto da questa parte dell'oceano, ma l'anno che sta per concludersi è stato il decimo consecutivo di Oscar Washington Tabarez sulla panchina dell'Uruguay. Questa serie di post che vado ad inauguarare è dedicata a lui, ai suoi 40 anni di carriera, agli infiniti aneddoti che hanno costellato la sua vita e che hanno fatto di lui semplicemente El Maestro.


Fischio finale, Cile 3 Uruguay 1. I rossi fanno festa, in campo ci si scambia qualche maglia, una pacca sulla spalla tra compagni di club. L'allenatore del Cile Juan Antonio Pizzi si alza, rimuginando sulle ovvietà che dovrà dire ai giornalisti nel dopo-partita. Sulla panchina dell'Uruguay invece c'è un signore anziano che ripone gli occhiali nel fodero, borbotta qualcosa e se ne sta lì, seduto, aggrappato alla sua stampella, in attesa forse che qualcuno lo aiuti a salire in sella al suo scooterino. È Oscar Washington Tabarez che, alle prese con una neuropatia che da mesi ne sta mettendo a dura prova le capacità fisiche, la scorsa notte ha festeggiato le 173 presenze alla guida dell'Uruguay. Un record a livello di Nazionali, fatto di 139 panchine consecutive dal 2006 ad oggi, che sommate alle 34 accumulate alla fine degli anni Ottanta ne fanno il CT con più presenze nella storia del calcio. Un record di costanza e longevità che in questa biopic da fiction RAI facciamo partire dalla notte del 25 giugno 1990, una notte magica.

Roma, Stadio Olimpico, ore 21:00. È un caldo lunedì sera, reso ancora più afoso dai riflettori che inondano di luce il terreno di gioco dove due uomini sanno fin troppo bene come il loro Mondiale potrebbe finire la notte stessa. Da una parte il nostro Vicini, il paterno tecnico di Coverciano alle prese con il malumore di Vialli e Carnevale e la contemporanea esplosione degli outsider Schillaci e Baggio. A pochi metri dalla sua area tecnica invece siede quello che tutti chiamano El Maestro: completo grigio, cravatta e una perenne smorfia che gli disegna sul volto un sorriso sofferente. Ma Tabarez chi è veramente? Come è arrivato quella sera a giocarsi il traguardo di una vita, all'Olimpico, a Roma, il centro del mondo in quell’estate italiana? Ma soprattutto, come riesce a scaldare ancora, nel 2016, la stessa panchina che occupava nel 1988, quando i portieri ricevevano ancora i retropassaggi con le mani?!

El Maestro è chiamato così non solo per l’autorità che ormai gli è riconosciuta nella storia del calcio uruguayano ma anche perché maestro lo era davvero, maestro elementare per la precisione, un mestiere che per qualche anno Oscar riuscì a conciliare con la carriera da calciatore. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta il giovane Tabarez è un poco promettente difensore della IASA (Institucion Atletica Sud America), piccola squadra di Montevideo abituata a salire e scendere dalla prima divisione. Nel 1968 ha l'onore di affrontare il grande Alcides Ghiggia, l'eroe del Maracanazo che, ormai ultraquarantenne, ha scelto di raccogliere gli ultimi applausi girando il Paese tra le fila del Danubio. Nel frattempo Tabarez, forse consapevole del suo non immenso talento, continua a studiare. Nel 1971 consegue la Laurea in Magistero all'Università di Montevideo che lo abilita all'insegnamento, la professione che eserciterà nelle scuole elementari di Villa del Cerro. Il Cerro, com'è chiamato abitualmente, è un barrio sorto nell'Ottocento sul lato occidentale della baia su cui si apre la capitale uruguayana per accogliere le migliaia di immigrati in arrivo dall'Europa. Sono i rumori e gli odori di questo quartiere popolare che Tabarez porta con sé lungo tutta la sua carriera, una carriera anonima, passata tra squadre di mezza classifica e a cui i problemi alle ginocchia che lo accompagnano tuttora hanno messo fine a soli 32 anni.

Nel 1980 la sua ultima squadra, il Bella Vista di Montevideo, gli dà fiducia. Qui Tabarez fa la conoscenza di José Herrera, El Profesor o, com'è noto ai più, El Profe, ovvero il preparatore atletico che lo accompagnerà per il resto della sua carriera. Tempo tre anni e la Federazione decide di affidare a quel giovane allenatore l’Under 20. Un antipasto con la “Celeste” di appena un anno, giusto il tempo di vincere i Giochi Panamericani e salutare. Ad aspettarlo infatti c’è il Danubio, dove Tabarez fa la conoscenza di un ragazzino che anni dopo troverà “un certo” spazio nel suo Uruguay: Ruben Sosa. Seguono un secondo e un quarto posto alla guida dei Wanderers, dove allena due dei suoi futuri collaboratori più stretti, Celso Otero e Mario Rebollo, infine arriva la grande occasione: il Peñarol.

Il clan Tabarez. Da destra: El Profe, Mario Rebollo, El Maestro, Celso Otero.

A fronte di un deludente ottavo posto in patria, Tabarez compie il suo capolavoro sul palcoscenico continentale dove conquista al primo colpo la Coppa Libertadores. È una finale interminabile quella che si consuma in tre atti tra Peñarol e America Cali. Una vittoria per parte, senza goal in trasferta che valgono doppio e aggregate, costringono le due squadre ad affrontarsi nella bella, da giocarsi in campo neutro a Santiago del Cile. La partita è abbastanza equilibrata, anche se il Peñarol meriterebbe il vantaggio dopo un bel goal annullato per fuorigioco e un rigore netto negato dall’arbitro. Dopo quasi 120 minuti il risultato è ancora bloccato sullo 0-0 quando nell’area dei colombiani piove un pallone che l’attaccante Jorge Cabrera addomestica e con il tacco scarica dietro per un compagno che tira a fil di palo. Lo storico commentatore uruguayano Carlos Muñoz accompagna il tutto con: «bomba, bomba, bomba, ahi ahi ahi!» Un’ottima suoneria per tutti i tifosi del Peñarol. Quando sembra tutto finito e gli allenatori pensano già alla lista dei rigoristi, Diego Aguirre scarta due uomini e raggiunge il limite dell’area dell’America, dove piazza un sinistro a incrociare che batte Falcioni.

Tabarez ha già un piede nella storia del calcio uruguayano. È il 1987, sembra il 1977. Ecco, osservare le immagini di quella finale credo sia il modo migliore per cogliere come Tabarez sia riuscito veramente ad attraversare il tempo. Arbitro e guardalinee vestono di un nero rigoroso, in mezzo ai cartelloni pubblicitari si legge ancora “Polaroid”, l’America è in campo con Julio Falcioni e Ricardo Gareca, che chi conosce un minimo il calcio sudamericano sa essere stimati allenatori sulla sessantina, infine e soprattutto, questo qui sotto è il portiere del Peñarol.

Frank Zappa arriva a Montevideo durante il tour mondiale del 1977.

Sono dettagli che scavano una distanza insormontabile tra il nostro presente in HD e i baffi di Eduardo Pereira, insormontabile per tutti, ma non per El Maestro. Pochi mesi dopo, sotto la neve di Tokyo, sfiora la Coppa Intercontinentale, fermato solo da un goal di Madjer ai supplementari... Madjer, che giocava con Juary, giusto per ribadire da quale epoca proviene Tabarez. Ancora fresco del successo in Libertadores, arriva comunque una nuova chiamata dalla Federazione. C’è un Sudamericano Sub-20 da giocare e una qualificazione al successivo Mondiale di categoria da guadagnare. Il quarto posto finale non basterà a Tabarez per portare i suoi ragazzi a giocarsi la fase finale in Cile ma convincerà ugualmente i vertici del calcio uruguayano ad affidargli le redini della "Celeste", quella vera, quella due volte campione del mondo, quella che a Italia 90 non può fallire.

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