L'ennesimo blog nostalgico sul calcio di cui si sentiva tanto bisogno.
venerdì 30 dicembre 2016
Necrologio 2016
Il 2016 è prossimo alla conclusione, un altro anno demm… che oltre
alle decine di morti nel mondo dello spettacolo ci lascia in eredità una
serie di ritiri eccellenti.
Steven Gerrard 36 anni
Figlio della
Kop, bambino prodigio, capitano e leggenda dei reds. Artefice della più
folle delle vittorie in Champions, di lui resta il rammarico di non aver
raccolto quanto meritato e di avere sulla coscienza l’errore che costò al Liverpool l’unica vera occasione di riportare a casa la Premier League.
Miro Klose 38 anni
Forse il più grande bomber dai tempi Gerd Muller (anzi, i numeri
invitano a togliere quel forse), solo che nessuno lo sa. Un esempio di
campione silenzioso. Per un omaggio come si deve vi invito a leggere qui.
Luca Toni 39 anni
Cannelloni, Luca Toni, pepperoni, Luca sei per me… numero uno!
Diego Milito 37 anni
Da anonimo sosia di Francescoli a idolo di tre tifoserie, da Buenos
Aires, a Genova, a Milano, e poi la Champions che non gli valse neanche
una nomination al Pallone d’Oro. Addio mio dolce Principe.
Nemanja Vidic 35 anni
Colonna dell’ultimo Manchester di Alex Ferguson, l’ultimo vero Manchester. Per lui una Champions e un caso di stalking.
Juan Carlos Valeron 41 anni
Un maestro del calcio, tecnico, elegante, intelligente. Chi ha giocato
con lui non riesce a non fargli i complimenti. Per Jugovic era più
facile giocare bene con Valeron al proprio fianco. Trovatosi prigioniero
di un’epoca che non era la sua, troppo veloce e fisica per le sue
fragili spalle, valgano però le parole di uno che in questa epoca ha
dimostrato di trovarsi decisamente a suo agio, Andrès Iniesta: «Valeron è uno di quei giocatori per cui vale la pena pagare il biglietto.»
Alex
34 anni
No, non è Alexandro de Souza, il nostalgico ex Parma e Fenerbahce di cui parliamo qui, bensì Alex Rodrigo Dias Da Costa, l'appesantito difensore del
Milan che Mexes e Zapata, loro malgrado, si sono guardati bene dal fare sfigurare. Alex
però non era solo il ciccione visto da noi, centralone con il senso del
goal in area era uno specialista delle punizioni. Un posticino tra
Branco, André Cruz, Roberto Carlos e Juninho glielo teniamo.
Mikel Arteta 34 anni
Promessa mai del tutto sbocciata, all’Everton seppe riguadagnarsi parte
di quello che la sua carriera gli aveva promesso in gioventù. L’ultimo
capitano dell’Arsenal che conosco.
Fernando Cavenaghi 33 anni
Nel
2003 c’erano Tevez, Mascherano, Zabaleta e poi lui, il Torito Cavenaghi, uno di
quei giocatori argentini che ad ogni Mondiale under 20 sembrano
destinati a una grande carriera. A 20 anni sceglie di giocarsi la sua
chance europea in Russia e da lì forse il suo destino cambia. Non troppe
soddisfazioni tra Spagna, Francia, Messico e Cipro ma uno status di
eterno idolo al River Plate. Ci mancherai un po’ anche tu, cugino del Cave di Bellinzago.
Bobby Zamora 35 anni
Qui da noi non è molto conosciuto ma in Inghilterra gode di uno stato
di idolo ovunque sia passato… oddio forse al Tottenham no, però i tifosi
di QPR, West Ham e Fulham lo ricordano così.
In questa puntata: Maradona al Flamengo, anzi no, al Boca, anzi no... Batistuta contro la municipale, le notti insonni di Cecchi Gori, una storia di giocatori in affitto, Tabarez in galera. Densità stimata: 3,7 aneddoti per centimetro quadrato.
Quella notte magica, quell’estate italiana però lascia qualcosa
di più di un’onorevole eliminazione, è l'inizio di un rapporto
simbiotico tra il calcio uruguayano e la nostra Serie A che in
qualche modo dura tuttora. Per qualche insondabile affinità elettiva
dovuta forse al mare, forse ai buoni uffici che Tonino Orrù e
Massimo Cellino potevano vantare presso il tentacolare procuratore
Paco
Casal, è a Cagliari che si forma la prima
“Little Montevideo” italiana. All'inizio dei Mondiali Fonseca non
fa in tempo a scendere in campo che ha già firmato il suo nuovo
contratto con i rossoblu. Nell’ambiente teso di Veronello per la
sconfitta subita con il Belgio, la trattativa per “Pepe” Herrera,
su cui perfino la Juventus
aveva messo gli occhi, va per le lunghe. Alla fine, con qualche
giorno di ritardo Herrera potrà esternare tutta la sua gioia:
«Adesso
sono felice e capisco cosa ha provato Fonseca dopo la firma col
Cagliari. Il richiamo di Cagliari è stato troppo allettante per
lasciarsi sfuggire l'occasione, in Italia si gioca il miglior calcio
del mondo»
Qualche settimana e anche Francescoli si decide a sbarcare in
Sardegna. E il Maestro? Ovviamente attraccherà anche lui al porto di
Cagliari ma il suo sarà un viaggio un po’ più lungo. Prima tappa:
Buenos Aires.
Date le aspettative della vigilia, l’eliminazione agli ottavi
non lascia troppi margini per una riconferma che già prima del
Mondiale appariva improbabile visti gli attriti e le incomprensioni
con una federazione che El Maestro giudica troppo assente e
disorganizzata. In Sudamerica le sue doti tecniche ed umane però
sono note e non passa molto tempo prima che arrivi la chiamata di
Antonio Alegre, l’uomo a cui a metà anni Ottanta il presidente
argentino Raul Alfonsin aveva chiesto di salvare il Boca Juniors dal
fallimento. Un grande onore ma anche una grande responsabilità per
Tabarez che racconta
come appena arrivato alla Bombonera si sentì dire: «allenare
il Boca non è come essere Presidente della Repubblica, ma quasi.»
All’inizio del 1991 il Boca è una squadra in salute ma che non
alza un trofeo importante da quasi dieci anni, per questo il
deludente ottavo posto rimediato nel Campionato Apertura 1991 ha
convinto la dirigenza a esonerare il tecnico Carlos Aimar. La rosa a
disposizione non è eccelsa ma questo di certo non spaventa El
Maestro che più che campioni cerca allievi disposti ad imparare.
Tra questi allievi spicca un giovane attaccante con i capelli biondi.
Arriva dal River Plate dove l’allenatore Daniel Passarella lo ha
sommariamente bocciato dopo poche partite. Segna poco, spreca tanto
ma Tabarez non impiega molto tempo per capire che quel capellone che
Aimar fa giocare esterno è in realtà l’unico vero centravanti
della squadra. Il suo nome è Gabriel Omar Batistuta. La prima cosa
che fa Tabarez dopo il suo arrivo è spostarlo al centro
dell’attacco, mettendo al suo servizio la fantasia e la velocità
di Diego Latorre e Alfredo Graciani. Il Maestro non rinuncia
al suo amato
4-3-3, che con Batistuta si arricchisce di
quella punta centrale forte fisicamente che gli era mancata nel
biennio passato alla guida dell'Uruguay. La vera stella del Boca però
è Latorre che rispetto all’amico Bati ha avuto un inizio carriera
travolgente, esordendo in prima squadra a 18 anni e guadagnandosi per
primo l’ingombrante etichetta di erede di Maradona.
L’approccio di Tabarez con l’ambiente non può essere migliore
visto che vince subito due amichevoli contro i rivali del River. Il
campionato inizia con una vittoria in casa dell’Argentinos ma è
tre giorni dopo, alla Bombonera, che si consuma il battesimo del
fuoco. È la prima
partita di Coppa Libertadores e di fronte c'è,
manco a dirlo, il River Plate. Agli ospiti bastano pochi minuti per
portarsi sul 2-0. Latorre accorcia le distanze ma neanche il tempo di
mettere la palla al centro che l’arbitro fischia un rigore per il
River. Si va negli spogliatoi sul 3-1, unica consolazione
l’espulsione di Astrada che lascia i suoi in dieci. All’11′
della ripresa una punizione in area è intercettata da Blas Giunta
che accorcia le distanze. Il Boca preme e a 20 minuti dalla fine un
triangolo tra Latorre e Marchesini mette in condizione quest’ultimo
di battere sul primo palo il portiere Passet. L'impresa è già
compiuta ma è il tiro sotto la traversa di Latorre a tempo quasi
scaduto che consegna la partita alla storia, che consacra
definitivamente Latorre come nuovo idolo della Bombonera e che fa
capire al pubblico argentino che quel gentiluomo venuto dalla sponda
opposta del Rio de la Plata è destinato a lasciare il segno.
Fammi spazio.
Il segno per la verità l’ha già lasciato con tre Superclásicos
vinti in neanche tre mesi che gettano le basi di una delle strisce
più vincenti del Boca nella storica rivalità con il River. In due
anni saranno 12
le vittorie nel derby, con una sola sconfitta e
ben due affermazioni in Libertadores. Due mesi dopo il miracoloso 4-3
della Bombonera si gioca infatti il ritorno
al Monumental dove Batistuta sale in cattedra. Prima si procura un
rigore che trasforma spiazzando il portiere, poi manca di un
centimetro una palla che è solo da spingere in rete, infine si fa
perdonare segnando di testa al termine un'azione fotocopia di quella
precedente. In campionato il Boca di Tabarez vola, con sette vittorie
nelle prime dieci partite, due soli goal subiti e nessuna sconfitta,
scava un profondo solco tra sé e le inseguitrici già a metà del
torneo. Il segreto? Pur non parlando lo spagnolo lo si può capire
abbastanza bene da questa vecchia VHS
che si apre simbolicamente con le immagini del titolo del 1981,
l'ultimo del Boca fino a quel momento, l'unico di Maradona con la
camiseta gialloblu.
Tabarez si impegna fin da subito a trovare la posizione ideale per
ciascun giocatore, a tirare fuori il meglio di ognuno per mettere in
campo una squadra che sia sempre protagonista. El Maestro
ammette, e nel 1991 non potrebbe fare altrimenti, di ispirarsi al
Milan di Sacchi, anche se tiene a precisare come per lui non fosse
Sacchi in sé l'elemento determinante. «Per
me i veri protagonisti erano i Baresi, i Gullit, i Van Basten,
giocatori all'altezza della proposta [di gioco ndr]».
Se in campionato gira che è una
meraviglia, in coppa la squadra concede qualcosina, soprattutto
quando è costretta a giocare in altura. Due sconfitte in Bolivia non
pregiudicano il passaggio agli ottavi, dove il Boca supera nel doppio
confronto il Corinthians. Ai quarti c'è il Flamengo che all'andata
si impone al Maracanà e al ritorno si presenta alla Bombonera con il
ramoscello
d'ulivo. I giocatori brasiliani infatti entrano
in campo portando uno striscione su cui si legge: «Maradona,
Flamengo te ama, hoy y siempre».
Ossequi che celano da una parte i tentativi dei brasiliani di
arruffianarsi l'ostile pubblico argentino e dall'altro quello di
mandare un messaggio a Diego, che pur sottoposto a squalifica in
Italia, avrebbe comunque potuto trovare una sistemazione temporanea
in Brasile. Gli applausi così guadagnati servono però a poco contro
Batistuta, che segna un rigore in apertura e Diego Latorre, la cui
doppietta ribalta il risultato dell'andata e porta il Boca in semifinale.
Una notte di ordinaria follia
Ultimo ostacolo prima di una finale che
manca del 1979 è rappresentato dai cileni del Colo-Colo. Forte della vittoria dell'andata, El Maestroostenta tranquillità alla vigilia di quella che appare come una normale semifinale di copppa ma che si
rivelerà essere uno dei momenti più drammatici della sua carriera. Le immagini della partita,
oltre a rendere bene l'idea del delirio e della quantità di carta
igienica che si potevano trovare in uno stadio sudamericano 25 anni
fa, fanno capire come nel secondo tempo i giocatori del Boca abbiano
lasciato la testa negli spogliatoi. Al 20', alla destra dell'area del
Boca, si vedono due loschi figuri scambiarsi il pallone. Sembrano
guerrieri mapuche o forse fanno solo parte di una cover band degli
Europe. Il primo, quello che si accentra e scarica per il compagno, è
Gabriel Mendoza. È uno dei terzini sudamericani più promettenti dei
primi anni Novanta e oggi fa l'assessore allo sport a Viña
del Mar. Il secondo, quello che supera due avversari e crossa in
mezzo ad altri due prima del goal di Ruben Martinez, è Marcelo
Barticciotto: argentino di Avellaneda, nato il 1° gennaio 1967 ma
registrato all'anagrafe un giorno prima per volere del padre che
contava di fargli guadagnare un anno da dedicare agli studi
universitari. Aveva fatto male i suoi calcoli però perché
Barticciotto lascia anzitempo l'università per seguire i suoi
interessi, tipo diventare una leggenda del Colo-Colo. Passano 120
secondi e Barticciotto fa 2-0. Una manciata di minuti e gli
attaccanti cileni passeggiano in area con i difensori che stanno a
guardare un colpo di tacco e un tiro di Jaime Pizarro che finisce di
poco fuori. Le poche volte che il Boca riesce ad uscire dalla propria
metà campo la palla cade presto preda dei difensori cileni che fanno
ripartire l'azione colpendo soprattutto da destra. Gli xeneizes,
a cui in fondo basterebbe un goal per tenere viva la speranza di
qualificazione, sembrano prossimi alla resa quando Batistuta riceve
palla sul vertice dell'area e senza guardare mette in mezzo dove,
forse il caso, forse l'attenzione agli schemi di Tabarez, vuole che
sbuchi Latorre che di testa accorcia le distanze. Il goal dà un po'
di morale agli argentini che però hanno evidentemente meno benzina
degli avversari.
Quando lo spettro dei supplementari (sì, proprio
quello spettro lì) inizia ad aleggiare sul Monumental di Santiago,
Martinez e Yañez del
Colo-Colo chiudono un triangolo che taglia a metà la difesa del
Boca. Ancor prima che Martinez possa battere a rete solo davanti al
portiere, il Boca Juniors, lo staff, i tifosi a casa, hanno già
tutti la mano alzata a chiamare il fuorigioco. Il guardalinee non
batte ciglio, il goal è regolare. È l'inizio della corrida. In
dieci minuti di ordinaria follia sudamericana succede quanto segue:
in campo entra chiunque; i giocatori rilasciano interviste nel mezzo
della partita; Tabarez aggredisce un uomo che risponde colpendolo al
volto; le forze dell'ordine circondano il portiere e capitano del
Boca, Navarro Montoya, mentre lancia il supporto di un microfono;
giocatori argentini si avventano su persone non meglio identificate;
Batistuta insegue un fotografo che lo respinge facendo roteare la sua
macchina fotografica come se avesse in mano delle bolas; ancora
Navarro Montoya, con i cani alle calcagna, si lancia su un
malcapitato finito a suon di calci volanti, gomitate e pugni in testa
da altri giocatori del Boca prima di uscire mestamente
dall'inquadratura; Batistuta urla a qualcuno un inequivocabile «hijo
de puta, hijo de puta!»
per poi sferrare un calcio che finisce addosso a un carabiniere, il
tutto mentre un insanguinato Tabarez cerca di trattenerlo per la
maglia. La partita in qualche modo riprende ma dopo neanche un minuto
un giocatore del Boca viene colpito da un oggetto. Dalla porta si
vede un capellone che parte alla rincorsa, è il solito Navarro
Montoya che con i pantaloni visibilmente lacerati dal morso di un
cane, si precipita per protestare in faccia all'arbitro, prendere il
pallone e scagliarlo in tribuna, guadagnandosi l'indiscusso titolo di
idolo della serata. Se la caverà con un cartellino giallo. Quando si
dice arbitraggio all'inglese...
Immaginate dieci minuti tutti così...
La serata si conclude con i cileni
festanti che bruciano bandiere argentine e aggrediscono i tifosi
ospiti mentre squadra e staff del Boca vengono portati in
commissariato. A pagare il conto più salato è proprio Tabarez
che viene arrestato e portato in cella insieme a un suo giocatore.
Anni dopo Alfredo
Graciani spiegherà come tutto sia nato da un
uomo proveniente dalla panchina del Colo-Colo che avrebbe sbattuto a
terra un giocatore del Boca mentre si affrettava a rimettere la palla
al centro. Anche Carlos
Navarro Montoya, l'assoluto protagonista di
quella sera, conferma che la causa scatenante non fu tanto il goal
subito, quanto le continue provocazioni dei giornalisti che ad ogni
goal entravano a centinaia sul terreno di gioco insultando i
giocatori argentini; ed è proprio Patricio
Yañez,
che con il Colo-Colo vincerà quella Libertadores, a riconoscere che
se la stessa cosa fosse successa ai giorni nostri, il Monumental
sarebbe rimasto chiuso per molto, molto tempo.
Rappresentazione allegorica della mattanza di Santiago. Olio su tela, 1991.
Tabarez non diventa presidente, ma quasi
Archiviata la notte al gabbio, Tabarez
può concentrarsi solo sul campionato, dove la sua squadra avanza a
grandi passi verso un successo annunciato. Il 23 giugno 1991, al
Viejo
Gasometro (quello Nuevo
non era stato ancora costruito) San Lorenzo e Boca Juniors sono fermi
sull'1-1. Sono i minuti finali e il Boca sta per battere una
punizione. Il telecronista si chiede se quella sarà l'ultima partita
in gialloblu di Diego Latorre, che in pratica è già della
Fiorentina. Non presta la minima attenzione invece a Batistuta, che è
lì di fianco e sta per sparare il pallone in curva. La partita si
chiude così, con il Boca che torna campione d'Argentina dopo dieci
anni e El Maestro che non è Presidente della Repubblica, ma
quasi.
Carlos Navarro Montoya e il capitano Juan Simon con prole.
Una prima stagione da incorniciare
quella di Tabarez, macchiata però sul più bello dal beffardo
regolamento del campionato argentino che per la stagione 1990/91
prevede una finalissima tra le vincitrici del Torneo Apertura e
Clausura. La sera dell'8 luglio, mentre El Maestro si
arrovella su quale formazione mandare in campo per ribaltare l'1-0
subito all'andata contro il Newell's Old Boys del Loco Bielsa,
Batistuta si trova a 1400 km di distanza, a Santiago del Cile, dove
segna una doppietta contro il Venezuela nella partita di esordio
della Coppa America. Privo di Bati e Latorre, Tabarez è costretto a
improvvisare un attacco inedito formato da due giocatori acquistati
per l'occasione. L'ex Universidad Católica
Gerardo Reinoso e il brasiliano Gaucho arrivano infatti a Buenos
Aires pochi giorni prima dello spareggio con il Newell's al solo
scopo di rimpiazzare la coppia titolare impegnata con la Nazionale.
Una responsabilità non da poco per i due attaccanti in affitto che,
malgrado le poche ore trascorse alla Bombonera, sono ricordati con
affetto dalla tifoseria. Reinoso pareggerà addirittura il goal
dell'andata portando i suoi ai rigori che alla fine però premieranno
il Newell's, riconosciuto ufficialmente quale unico vincitore di quel
campionato.
La conferma
L'estate del Maestro passa tra
la soddisfazione per il Clausura vinto e le inquietudini per un
futuro senza Latorre. L'erede designato di Diego è da tempo promesso
alla Fiorentina di Cecchi Gori che, dopo la partenza di Baggio, vuole
regalare alla Curva Fiesole un nuovo numero 10 da amare. Anche Bati
entra nell'affare ma è solo un comprimario. Per lui Cecchi Gori
prevede un altro anno al Boca, il vero colpo è Latorre, o così
dovrebbe essere. Nelle notti
insonni passate davanti alla TV a guardare la Coppa America però si
insinua nel presidente viola l'atroce dubbio di aver sbagliato tutto.
Latorre non brilla, Batistuta trascina l'Argentina alla vittoria
finale e la sua quotazione aumenta ogni giorno che passa.
Indifferente ai 7 miliardi già sborsati, l'allenatore della
Fiorentina Lazaroni preannuncia che Latorre partirà dalla panchina,
la campagna abbonamenti langue e l'ambiente si sta abbacchiando.
Parte il contrordine: Batistuta
deve arrivare subito, Latorre può attendere,
mentre a Buenos Aires si rischia la sommossa. Per non scontentare i
tifosi Cecchi Gori cede ai ricatti del Boca e del procuratore
Settimio Aloisio che oltre ai 12 miliardi per Batistuta, inserisce
nel conto un sovrapprezzo di 500.000 dollari per il cartellino di
Latorre, 400.000 dollari per il suo ingaggio e 2 miliardi e mezzo per
l'acquisto di Antonio Mohamed come risarcimento per la partenza
anticipata di Bati.
Mohamed, Bati e Latorre. Cecchi Gori se li sognava anche con la Marini nel letto.
Come è andata a finire da questa parte
dell'oceano lo sappiamo bene, proprio quest'anno il vice-Renzi
Nardella ha consegnato le chiavi della città di Firenze a Batistuta
che in quell'estate di 25 anni fa lascia il Boca contro il parere di
Tabarez. «Attenti.
È difficile trovare un altro Batistuta»,
sono le parole con cui El Maestro timidamente tenta di opporsi
alle leggi del mercato e allo strapotere dei club italiani,
consapevole che Mohamed, a Bati, avrebbe potuto al massimo pulirgli
le scarpe. Come spesso accade in Sudamerica, Tabarez si ritrova con
una rosa uscita sfigurata dalla sessione estiva di calciomercato. Con
la partenza di Graciani due terzi dell'attacco se ne sono andati,
lasciando al deluso Latorre, che sperava di cominciare subito la sua
avventura europea, il compito di segnare e far segnare la possente
punta paraguayana Roberto Cabañas.
A completare il tridente arriva dal Peñarol
Sergio Manteca Martinez, che Tabarez volle come attaccante di
scorta a Italia 90 e che al Boca diventerà un idolo. Un altro
raccomandato è Ruben Pereira, che dopo il buon Mondiale con
l'Uruguay e 13 dimenticabili presenze con la Cremonese, cede al
richiamo del Maestro e lo raggiunge alla Bombonera. Il quadro
dei nuovi arrivi è poi completato dal rosso terzino Carlos
MacAllister e da un altro scarto della Serie A, ancora troppo fine
per una bestia esotica come Gustavo Neffa.
Un saluto agli amici del River.
Tra le apparizioni di Maradona
sulla tribuna della Bombonera e incontrollabili voci che vorrebbero
il ritorno di Diego
al Boca per volere dell'imprenditore Mauricio
Macri, futuro presidente del club e attuale Presidente della
Repubblica, la difficile stagione della riconferma inizia un po' a
rilento con 4 punti nelle prime tre partite. La scarsa continuità
delle altre squadre però viene incontro a Tabarez che alla decima
giornata si presenta al Superclásico
con un punto di vantaggio sui rivali del River Plate. Il Boca si fa
vedere spesso nell'area avversaria e all'inizio del secondo tempo
Sergio Martinez segna una gollonzo sugli sviluppi di un calcio di
punizione. Segue uno degli show più in voga di quegli anni sui campi
argentini, comprensiva di vertiginosa arrampicata sull'alambrado, la rete di separazione tra curva e terreno di gioco, maglie che volano via, perdite
di tempo dell'ordine del quarto d'ora con spruzzata di cartellini
finale. Se il Manteca
si sta già guadagnando la fama di trascinatore è però il portiere
Navarro Montoya a fare esplodere lo stadio quando al 66' spedisce
in corner un dubbio rigore concesso al River. L'1-0 regge fino alla
fine prolungando una striscia positiva che terminerà dopo otto
partite nelle quali il Boca non subisce goal. La coppia
Cabañas-Martinez
non fa rimpiangere troppo i protagonisti dell'anno prima ma quando il
traguardo è ormai raggiunto arrivano due sconfitte interne contro
Independiente e Deportivo Español
che rimettono tutto in discussione. Il River da parte sua è
ammirevole per quanto riesca a buttare alle ortiche le innumerevoli
occasioni di sorpasso che il calendario gli mette di fronte. Nel
corso di tre settimane nelle quali gli uomini di Tabarez racimolano
un solo punto, il River di Passarella riesce nell'impresa di non
guadagnarne neanche uno. L'11 dicembre contro il Platense il
match-ball è ancora incredibilmente tra le mani, anzi tra i piedi
del Boca e del più inatteso dei suoi protagonisti. È infatti uno
sconosciuto difensore di 19 anni, con meno di dieci presenze alle
spalle, che al 20' del secondo tempo si trova il pallone tra i piedi
e, un po' per gioco, un po' per incoscienza improvvisa una finta. Via
uno, via due, via tre, dribbling sul quarto e tiro sotto la traversa
prima che arrivi il quinto. Luis Medero segna un goal
bellissimo
con cui regala al Boca e al Maestro
Tabarez il secondo titolo consecutivo e a se stesso un momento che
vale un'onesta carriera passata tra Colon e San Lorenzo.
L'ultima di campionato contro il San Martin de Tucuman è il giorno della festa della Bombonera che come da consuetudine fa sfoggio di chilometri di carta igienica e tonnellate di papelitos che cadono a pioggia sul circo equestre che va in scena dopo il goal di Claudio Benetti. Una storia simile a quella di Medero, un altro sconosciuto che nel momento più importante si guadagna il diritto di scalare l'alambrado dal quale aizzare la gioia rabbiosa della curva, che in quell'istante aggiunge l'ennesima icona al pantheon del culto xeneize. Di lì a poco la polizia entrerà in campo, ci saranno feriti tra gli stessi calciatori, la rete di protezione verrà divelta e cadrà addosso alla porta... sì, gli argentini sanno decisamente come divertirsi. Lo deve aver imparato anche Tabarez che, se nella prima stagione fa breccia nel cuore dei tifosi del Boca, nella seconda entra definitivamente nella storia del club, che si arricchisce ulteriormente con il
successo continentale in Copa Master...
Quando esci per una serata tranquilla ma poi il Boca vince il campionato.
Momento, momento, momento... che vi lascio con questo atroce dubbio? Che cosa ca**o è la Copa Master, si chiederanno i temerari che hanno resistito fino a questo punto. Ecco, si tratta
dell'ennesima elucubrazione della CONMEBOL che a cavallo degli anni
Ottanta e Novanta pensa bene di mettere di fronte le squadre
vincitrici delle ultime quattro edizioni della Supercopa
Sudamericana, ovvero un torneo che riuniva a sua volta le squadre che avevano vinto almeno una volta la Libertadores. Un particolare
di dubbio interesse perfino per questo blog ma che non fa altro che
aggiungere un altro po' di nostalgia alla storia di Oscar Washington
Tabarez.
L'inizio della storia d'amore con la Celeste, la Coppa America, Italia 90, una notte quasi magica all'Olimpico. Tutto nella seconda puntata del nostro sceneggiato storico con Dustin Hoffman nella parte del Maestro Tabarez.
Il primo bacio
Mentre da noi si chiudono gli ultimi ombrelloni, l'estate australe
del 1988 comincia a scaldare la baia di Montevideo. Oscar Washington
ha 41 anni, è giovane, colto ed elegante. Ha già una Coppa
Libertadores in bacheca e si appresta a condurre ai successivi Mondiali la Nazionale che da calciatore aveva potuto osservare solo da spettatore. Prima però c’è una Coppa
America da preparare e la pesante eredità lasciata da Roberto
Fleitas e dal discusso Omar Borras, vincitori delle ultime due
edizioni, da non far rimpiangere. Il primo bacio della lunga storia
d’amore tra El Maestro e la Celeste ha luogo il 27 settembre
1988, allo Stadio Defensores del Chaco, ad Asunción, Paraguay. Si
gioca la Copa Boquerón, uno di quegli strani tornei con squadre
invitate a caso in cui non era insolito imbattersi fino a metà degli
Novanta e che oggi un po’ ci mancano. Di fronte al nuovo Uruguay di
Tabarez c’è l’Ecuador, che in mezzo al campo schiera già un
giovane Alex Aguinaga. La partita si mette bene con il goal di
Gustavo Dalto. A un quarto d’ora dalla fine Jimmy Izquierdo
pareggia. I rigori sembrano sempre più probabili quando a 5 minuti
dalla fine José Oscar Herrera regala la vittoria ai suoi. Una
vittoria tutta di Tabarez, firmata da Dalto, suo giocatore ai tempi
del Danubio, e da “Pepe” Herrera, omonimo del Profe e
figlio prediletto al Peñarol prima e al Cagliari poi. Due giorni
dopo sullo stesso campo c’è il Paraguay che alla fine del primo
tempo segna tre goal in quattro minuti: risultato finale 3-1. El
Maestro ha già la testa in Brasile.
La Coppa America
Il Brasile ospita nell’estate 1989 una Coppa America rinnovata,
che abbandona la vecchia formula che qualificava la squadra campione
in carica direttamente alle semifinali, sostituendola con una
egualmente assurda a doppio girone con gruppi da cinque squadre,
costrette a giocare ogni due giorni per accedere a un altro girone
all’italiana da quattro squadre. Tabarez lancia qualche giovane
come i ventenni Ruben Da Silva e Ruben Pereira, entrambi Ruben ed
entrambi passati senza troppa fortuna in Italia. L’ossatura della
squadra rimane però quella consolidatasi con la gestione Borras,
con El Principe Francescoli a illuminare, assistito da
elementi di esperienza come Ruben Paz e Antonio Alzamendi. Più che
rivoluzionare in questa fase Tabarez si preoccupa soprattutto di
ricucire, riguadagnando alla causa uomini importanti come Ruben Sosa,
che il Mondiale in Messico l'aveva visto in televisione, e Hugo De
Leon, roccioso centrale difensivo inviso al precedente allenatore
per le sue simpatie sinistrorse.
Tabarez è quanto di più lontano ci sia dal suo predecessore, anche fisicamente. I completi e il trenchcoat alla
Humphrey Bogart del Maestro sono ben diversi dalle tute
attillate del pingue Borras. La differenza oltre che di stile però è
soprattutto ideologica. Se il vulcanico Borras era infatti vissuto da
una parte degli uruguayani come l'ultimo, indigesto residuo della
dittatura miliare cominciata nel 1973 e terminata solo nel 1985, la
calma saggia e serafica di Tabarez appare come una ventata di novità
e speranza in un Paese che ha riscoperto da poco la democrazia e dove
dopo 12 anni di clandestinità è tornato a farsi sentire il Frente
Amplio, la storica coalizione di sinistra in cui milita
tuttora l'ex presidente José Mujica. Moderato ma dichiaratamente di
sinistra, amante dello scrittore dissidente Eduardo
Galeano, a chi gli fa visita Tabarez mostra con orgoglio la grande scritta che campeggia all'entrata della sua residenza di Montevideo, uno dei più celebri aforismi di Ernesto “Che” Guevara: «Hay
que endurecerse sin perder jamás la ternura»,
che come i poster nelle librerie Feltrinelli ci hanno insegnato
significa: «Bisogna
essere duri senza mai perdere la tenerezza.»
Tra speranze e scetticismo l’avventura comincia nel peggiore dei
modi. Strafavoriti, contro l’Ecuador gli uomini di Tabarez lasciano
per larghi tratti l’iniziativa agli avversari che al 90′
puniscono la presunzione uruguayana con il goal
di Ermen Benitez, padre dello sfortunato Christian, giocatore visto anche in Europa con il Birmingham e
scomparso nel 2013 per un attacco cardiaco. Due giorni dopo contro
la Bolivia, Tabarez decide di dare più spazio a Ruben Sosa,
reduce dalla sua prima stagione italiana con la Lazio. Privo di
Francescoli, già assente nella partita precedente, affida le chiavi
del centrocampo a Ruben Paz e Pablo Bengoechea. A fare le spese di
questi stravolgimenti tattici è Pato Aguilera, che da lì
in avanti vedrà il campo con il contagocce. A lanciare la riscossa
“celeste” però è Herrera, che sulla fascia destra fa quello che
vuole e innesca l’azione che porta alla gran botta di Ostolaza
prima e al tap-in di Sosa dopo. A chiudere ci pensa ancora Ostolaza
di testa. Il ruvido centrocampista che Tabarez svezzò in gioventù
al Bella Vista è il mattatore della serata ma la vera prestazione da
incorniciare è quella di Herrera, un giocatore depositatosi nella
mia memoria come niente più che una figurina Panini e che è
riemerso come un fenomeno durante la scrittura di questo post. Nelle
vecchie VHS che tifosi uruguayani e cagliaritani hanno riversato su
Youtube ho scoperto un difensore dalle doti tecniche più che buone,
capace di saltare l’uomo, portato all’inserimento e con senso del
goal (che goal è a 0.37?!),
il tutto completato da un destro che ne faceva uno specialista dei
calci piazzati. Negli anni Novanta uno come lui passava la carriera
tra Cagliari e Bergamo, oggi la fascia destra del Manchester City
potrebbe essere sua.
Solo ora capisco le gioie che devi aver regalato al Fantacalcio.
Contro il Cile è di nuovo 3-0
e il ritorno in campo con goal di Francescoli rimette definitivamente
in corsa l’Uruguay per la qualificazione. Nella partita finale del
girone Tabarez ha di fronte l’Argentina di Bilardo, campione del
mondo ma affetta dalla sua cronica “Maradona-dipendenza”.
L’ingresso di Caniggia
per Burruchaga non provoca sconvolgimenti, fino al 69′ quando...
indovinate chi? Diego, ovviamente, pesca il biondo attaccante allora
in forza al Verona, colpevolmente lasciato libero di calciare in modo
tutt’altro che irresistibile. Il portiere Zeoli fa il resto.
L’Argentina vince e passa al secondo turno, l’Uruguay perde e
Tabarez accende un cero perché il Cile batta l’Ecuador senza
troppi goal nell'ultima gara del girone. La Roja farà il suo
dovere e l’Uruguay passerà per la differenza reti. El Maestro sa di avere un debito con la
fortuna.
È la volta del secondo turno, il girone finale che decide tutto.
Un po’ per caso l’Uruguay si trova per le mani l'occasione di
ricominciare da capo un torneo completamente nuovo, a partire dalle
condizioni ambientali che passano dai 12.000 spettatori di media di
Goiania ai 100.000 del Maracanà. La prima occasione di Tabarez per
onorare il suo debito con la fortuna è contro il Paraguay, squadra
tosta, che è riuscita a passare come prima del girone davanti al
Brasile padrone di casa. Ora fate un respiro, non vi chiedo di
guardarlo integralmente, io stesso ho dovuto tagliare la dose per la
troppa purezza, quello che vi consiglio però è di passare qualche
minuto in silenzio, a capo scoperto, in beata contemplazione della
fulgida manifestazione di nostalgia che vado ora a linkarvi.
Avete
seguito il mio consiglio? Mi auguro di sì, perché se siete capitati
su questo blog, se magari siete pure recidivi e non è neanche la
prima volta che vi ci addentrate, questa è la medicina buona di cui
avete bisogno. La medicina che distillo per voi che come il sottoscritto siete persone orribili, tossici del cazzo che si bagnano come delle
tredicenni a un concerto di Fedez a sentire il giovane Massimo
Marianella che su Telecapodistria parla di Chilavert che rifiuta la
Nazionale perché non vuole fare la riserva, mentre Fabio Capello
elogia le doti fisiche di Gustavo Neffa, l'attaccante paraguayano ex Cremonese a cui «giassò
che sai giassai che» il nostro Neffa deve il suo nome d'arte.
Il dovere di cronaca mi impone di darmi una ripulita e tornare
alle vicende di campo di Oscar Washington e del suo Uruguay,
che dopo qualche minuto di affanno, piano piano, prende piede come
poche volte si era visto. Francescoli sembra in giornata sì, Sosa
inizia a ispirare compagni non sempre all’altezza, Ostolaza e
Perdomo garantiscono il fabbisogno quotidiano di garra charrúa.
Intanto il possesso palla del Paraguay si impantana a metà campo.
Intorno alla mezz’ora un lancio di Perdomo, a
cui Boskov avrebbe permesso al massimo di giocare in giardino con il cane, pesca Ruben Sosa che sembra non aspettare altro. La
folle uscita del Gato Fernandez non fa che rendergli più
facile il compito: palla in mezzo per l’accorrente Francescoli che
si tuffa a porta vuota. L’1-0 non fa che favorire l’inerzia della
partita, con il Paraguay che fa circolare a lungo il pallone senza
creare grossi pericoli e anzi, si espone al gioco degli avversari,
basato sulla velocità degli esterni e sul contropiede: d’altra
parte si sa, l’Uruguay è la squadra sudamericana più europea. La
"Celeste" inizia a subire e con il risultato ancora in bilico Tabarez
si prende la responsabilità di sostituire un Francescoli che nel
secondo tempo è andato spegnendosi. La pressione del Paraguay non dà
tregua a Zeoli che però è in giornata straordinaria. L’asino che
solo qualche giorno prima aveva regalato la vittoria all’Argentina,
la riserva che si trovava lì solo perché il titolare Alvez si era
rotto una gamba giocando a basket, ha lasciato il posto a un felino
capace di tre autentici miracoli. La partita verso la fine si fa
divertente, con il Paraguay che si riversa in massa nell’area
uruguayana e lascia spazi enormi per le ripartenze dell’incontenibile
Sosa. È proprio il Principito a servire Alzamendi per il 2-0
che di fatto chiude il match. C’è giusto il tempo per un
contropiede d’altri tempi, con l’Uruguay in superiorità numerica
di 5 contro 2 e Ruben Paz che batte il Gato Fernandez per la
terza volta.
Se osserviamo la parabola di Tabarez alla guida della sua
Nazionale possiamo notare tre picchi i quali, se si esclude la Coppa
America del 1995, corrispondono grosso modo ai momenti di massimo
splendore del calcio uruguayano degli ultimi trent’anni. Il primo
di questi picchi, quello che fa entrare El Maestro nel cuore
dei suoi connazionali, cade la sera del 14 luglio 1989. Il Maracanà
ospita la riedizione
a parti invertite del match di pochi giorni prima tra un Uruguay
rivitalizzato dalla vittoria con il Paraguay e un’Argentina uscita
asfalta dal Brasile nel Clásico
di due giorni prima. Sul finire del primo tempo Paz e Francescoli si
destreggiano con passaggi nello stretto sull’out di
sinistra, la palla finisce tra i piedi del terzino Dominguez che
lancia al limite dell’area in direzione di Alzamendi. A questo
punto succede l’imponderabile con Sensini che anticipa agevolmente
Alzamendi e poi pensa bene di appoggiare indietro verso... Ruben Sosa
che dribbla Pumpido e deposita in rete. Anche da questi dettagli si
percepisce l’incredibile stato di grazia nel quale si trova Sosa e
che raggiunge il culmine qualche minuto dopo. Prima però c’è un
lampo di
Maradona che, impossibilitato a fare altro, trasforma un’innocua
palla che ballonzola a centrocampo in un missile Saturn V che si
stampa sulla traversa. Un breve interludio nello show di Ruben Sosa
che nel secondo tempo infila in contropiede la difesa argentina e
chiude la partita. Rivedendolo anche oggi, quel goal ci parla di una
superiorità schiacciante dell’attaccante della Lazio, che con una
finta di corpo fa fuori i suoi marcatori prima di bruciarli con
un’accelerazione inarrestabile. Nestor Clausen, in un ultimo
disperato tentativo di toccare la palla, viene addirittura sbalzato
via dalla furia del Principito. L’acerrimo rivale è stato
sconfitto, le critiche mosse a Tabarez in apertura di torneo, che lo
accusavano di aver sbagliato preparazione, dissolte. Con il senno di
poi la notte di Rio è il momento più alto della prima gestione
Tabarez.
Ruben Sosa: miglior giocatore sudamericano 1989.
Nonostante la formula del torneo preveda un girone all’italiana
in luogo di una finale secca, l’inaspettata vittoria dell’Uruguay
contro l’Argentina regala ai 150.000 del Maracanà la tensione di
una finale vera e propria. Uruguay e Brasile sono entrambe a 4 punti,
con i padroni di casa che in virtù della migliore differenza reti
possono contare su due risultati su tre... esattamente come 39 anni
prima. Il Maracanzo non sembra aver insegnato niente ai
brasiliani. La partita
prende la piega consueta, con Tabarez che invita i suoi ad aspettare
nella propria metà campo in attesa del varco giusto per colpire in
contropiede. Il Brasile però non è il Paraguay e quel che è peggio
l’Uruguay in campo non è quello di due giorni prima.
Francescoli si incarta in dribbling velleitari, Ruben Sosa è
praticamente inesistente e così diventa solo una questione di tempo
prima che un triangolo chiuso da Mazinho e Bebeto si trasformi in un
cross per Romario che indisturbato segna il goal della vittoria. Il
sogno si infrange proprio quando l’inatteso traguardo del terzo
titolo consecutivo sembrava a portata di mano. C’è delusione tra i
charrúas ma anche la convinzione che Tabarez sia l’uomo
giusto per guidare l’imminente campagna italiana.
Italia 90
Passa poco più di un mese e la posta in palio è già altissima.
A Lima l’Uruguay vicecampione continentale è già in campo per la
prima partita di qualificazione ai Mondiali. Niente a che vedere con
l’interminabile girone unico a cui siamo abituati oggi, all’epoca
ci si giocava tutto in un mese di passione in tre gironi da tre
squadre. Non c’erano scappatoie, o vincevi il girone o stavi a
casa. L’inizio è incoraggiante: un 2-0
con un Perù che si preannuncia la cenerentola del gruppo. Il vero
ostacolo si presenta però una settimana dopo e ha l’aria rarefatta
dei 3600 metri di altitudine dello Stadio Hernando Siles di La Paz,
dove la Bolivia è solita surclassare gli avversari sul piano
atletico. Se aggiungiamo che quella Bolivia era anche una buona
squadra, con alcuni degli elementi che qualche anno più tardi
porteranno alla storica partecipazione a USA 94, non è così
inspiegabile la sbandata degli uomini di Tabarez, che perdono 2-1
e sono costretti a puntare tutto sulla partita
di ritorno. La Bolivia è a punteggio pieno e la pressione è
tutta sull’Uruguay.
Alla mezz’ora uno che mi sembra essere Ostolaza fa partire un
lancio che scavalca la difesa boliviana. Lì appostato c’è Ruben
Sosa che con freddezza porta in vantaggio i suoi. Appena otto minuti
dopo Francescoli segna il 2-0 e fa esplodere il Centenario. Contro il
Perù, nell’ultima partita del girone l’Uruguay ha a disposizione
solo un risultato. Fortunatamente la stella di Sosa, che in Coppa
America si era eclissata proprio nel momento della verità, brilla
più splendente che mai e regala a Tabarez un altro successo sul filo
di lana.
Sei mesi di esperimenti consegnano al Maestro una
squadra che alla vigilia dei Mondiali scopre di non potersi
discostare troppo dall’assetto trovato l’estate precedente in
Coppa America. Persino Perdomo, incappato in una stagione disastrosa
al Genoa, in mezzo al centrocampo di Tabarez trova la sua ragion
d’essere come schermo davanti alla difesa. La nota più positiva è
senza dubbio l’esplosione di Daniel Fonseca, attaccante del
Nacional che si guadagna un posto in pianta stabile nel gruppo, dove
è tornato anche Fernando Alvez che si è ripreso il posto tra i pali
soffiatogli prima da Zeoli e poi dal baffuto Eduardo Pereira.
Nell’estenuante ritiro di quasi due mesi voluto da El Maestro
e culminato con l’arrivo al centro sportivo di Veronello, non
mancano aneddoti per i palati nostalgici, come il 4-1 che l’Uruguay
infligge al Padova, che schiera tra gli altri Benarrivo, Di Livio,
Pippo Maniero e Giancarlo Camolese, oppure il doppio confronto
amichevole con il Chievo, allora anonima squadra di C1, che nella
prima partita fa giocare i portieri dell’Uruguay!
La “rivoluzione tranquilla” che Tabarez pazientemente
orchestra da due anni nel tentativo di cambiare
l’immagine del calcio uruguayano, affrancandolo
dallo stereotipo del gioco sporco, dal luogo comune della garra
quale unica arma a disposizione del piccolo Paese platense per
rivaleggiare con gli ingombranti vicini sudamericani e con gli
squadroni europei, si è vista solo a tratti. In un calderone di
vittorie risicate e passaggi di turno miracolosi ci sono però due
episodi in cui il bel gioco predicato dal Maestro riesce a
manifestarsi, finendo per alimentare ambizioni fin troppo smisurate
da parte dell’opinione pubblica uruguayana. Il pirotecnico 3-3
di Stoccarda contro la Germania futura campione del mondo e la
vittoria a
Wembley sull’Inghilterra arrivano proprio a ridosso dell’esordio
mondiale, regalando l’immagine di una squadra realmente in grado di
competere sul piano tecnico ai più alti livelli. Per le strade di
Montevideo si mormora neanche troppo sommessamente di semifinale,
traguardo che manca dal 1970, i più ottimisti giurano di vedere in
Francescoli e Sosa gli eredi di Andrade e Schiaffino, di Nasazzi e
Varela, gli eroi mitici di un’epoca di cui già allora si sentivano
solo echi lontani. Italia 90 sarà l’ultimo Mondiale in cui il
popolo uruguayano nutrirà
vere ambizioni di vittoria.
Il 13 giugno allo Stadio Friuli di Udine non è più il tempo
delle previsioni, c’è la Spagna
di Luis Suarez da affrontare e 2 punti da prendere. Tabarez manda in
campo i suoi uomini di fiducia, con Ruben Pereira preferito ad
Ostolaza. L’inizio è quello classico dell’Uruguay, chiuso,
attendista, preoccupato di far sfogare gli avversari e di ripartire
in contropiede. Neanche il cartellino giallo d’ordinanza può
mancare, con Perdomo già ammonito dopo 10 minuti di gioco. Ruben
Sosa getta il copione una prima volta quando a metà del primo tempo
parte da dietro, semina tre avversari e al limite dell’area serve
Alzamendi che impegna Zubizzarreta, salvo solo con l’aiuto
della traversa. Il secondo tempo è un monologo “celeste” dove
lentamente si dispiega sul terreno di gioco il verbo di Tabarez.
L’Uruguay è in pieno controllo della partita e chiude la Spagna
nella propria metà campo. Al 70′ Herrera intercetta un pallone
proveniente da calcio d’angolo e la indirizza alla sinistra di
Zubizzarreta. Solo il braccio di Francisco Villarroya riesce a evitare che il pallone raggiunga il fondo della
rete. L’arbitro fischia e indica il dischetto, solo un attimo di
attesa prima che il destino giunga al suo naturale compimento: il
brutto anatroccolo che diventa finalmente cigno e veleggia verso la
gloria. C’era scritto più o meno questo sul pallone che Ruben Sosa
si incarica di tirare, prima di stracciare la pagina del lieto fine e
sparare il rigore in curva. Ancora oggi, quando in un bar o sul taxi
che dall’aeroporto di Montevideo vi porta all’albergo, la
discussione cade sui Mondiali di calcio, non è insolito incontrare
nel vostro interlocutore la delusione ancora viva per quel rigore di
26 anni fa. Per gli uruguayani si tratta della chiave di volta che trasforma un’avventura da vivere con la voglia di stupire in
una marcia faticosa verso il secondo turno. La “rivoluzione
tranquilla” di Tabarez è morta prima di cominciare, o almeno così
sembra.
13 giugno 1990: una ferita ancora aperta.
Quando l’Uruguay scende in campo a Verona contro il Belgio
ha il peso del rigore di quattro giorni prima, un punto in meno di
quanto meritato e, a differenza dell’estate precedente, un credito
con la fortuna. È proprio la dea bendata che, in virtù di qualche
insondabile legge di compensazione, altrimenti detta karma, sembra
aver voltato le spalle ai ragazzi di Tabarez. La squadra parte bene
con Francescoli che porta via il pallone a Scifo e si invola verso
l’area avversaria prima di tirare alto. Le belle sensazioni avute
contro la Spagna però vengono spazzate via in una manciata di
minuti. Al 16′ il capitano del Belgio Jan Ceulemans parte da
centrocampo per sviluppare un’azione in velocità che mette in
evidenza tutti i punti deboli della squadra di Tabarez, dall’allegria
in marcatura di Perdomo alla disattenzione di ali e attaccanti, che
sulla sinistra lasciano solo il povero Herrera contro tre avversari.
De Wolf è così libero di crossare per Leo Clijsters che,
dimenticato dalla difesa, non ha difficoltà a colpire di testa: 1-0.
Neanche il tempo di rialzarsi che la stellina Scifo, senza incontrare
la benché minima pressione da parte dei centrocampisti, dalla tre
quarti scaraventa una minella che si infila alla destra di Alvez.
Tramortiti, gli uruguayani cedono ai loro naturali istinti con Sosa
che si becca il giallo per uno sgambetto a Demol e poi va a pressare
Preud’Homme che non aspetta altro per buttarsi a terra e perdere un
po’ di tempo: insomma tutto ciò che Tabarez ha sempre
stigmatizzato. Sempre il Principito si produce in un tuffo
truffaldino che costa l’espulsione a Gerets. L'uomo in più però
serve a poco quando all’inizio del secondo tempo Ceulemans si trova
davanti un’autostrada che porta dritto verso il 3-0. A questo punto
il Belgio si chiude e amministra. L’ingresso di Aguilera al posto
di Alzamendi dà un po’ di vivacità a una squadra che almeno per
numero di tiri in porta qualcosa in più meriterebbe. Il goal di
Bengoechea arriva troppo tardi, il Mondiale dell’Uruguay è già al
bivio decisivo.
Contro la Corea
del Sud non si può sbagliare, una vittoria garantirebbe al
massimo un ripescaggio e anche in caso di passaggio del turno si
andrebbe incontro al proibitivo accoppiamento con l’Italia. In un
grigio pomeriggio friulano non è una semplice partita di calcio ad
andare in scena ma il dramma nazional-popolare di un Paese che ad
ogni tiro, ad ogni azione che pazientemente i piedi di Francescoli,
Paz, De Leon costruiscono, vive la differenza tra tutto e niente, tra
la vita e la morte. Come già dimostrato contro Belgio e Spagna, i
coreani vendono cara la pelle e non si tirano indietro quando c’è
da menare. Gli attaccanti dell’Uruguay invece danno vita al solito,
deprimente spettacolo già visto nelle prime due uscite: una serie
interminabile di tiri, da vicino, da lontano, da calcio piazzato che
finiscono irrimediabilmente fuori o tra le braccia del portiere. Come
è solito fare quando la situazione non si sblocca, Tabarez gioca la
carta Aguilera... ma niente. Al 64′ prova a dare una scossa ai suoi
sostituendo Sosa con l’esordiente Fonseca. Dopo 90 minuti l’Uruguay
è, come si suol dire, sulla scaletta dell’aereo, direzione
Montevideo, vergogna, oblio. In Plaza Independencia c’è già una
croce su cui si leggono chiare le iniziali O.W.T. Fonseca, proprio lo
sbarbato coi denti da coniglio che Tabarez ha mandato in campo
tentando il tutto per tutto, si guadagna una punizione sulla destra
dell’area coreana. El Maestro si gioca due anni di lavoro,
di sforzi per «rinnovare
l’immagine del calcio uruguayano nel mondo»,
in una mischia d’area. Quando il pallone si alza da terra e sorvola
le teste dei giocatori in campo però è come se portasse con sé una
brezza leggera, capace di spazzare via per un momento tutte le
polemiche sorte nelle settimane precedenti. Il mucchio selvaggio
formatosi in mezzo all’area di rigore rimane immobile, quasi ad
accompagnare l’ingresso nella storia di Daniel Fonseca (in
fuorigioco peraltro). La sofferenza di 90 minuti è cancellata in un
istante, l'Uruguay
torna a vincere in un Mondiale dopo vent’anni e per qualche ora
l’aria pesante che da giorni circola nel ritiro di Verona si
dirada. La panchina festeggia, dirigenti e membri dello staff esultano, eppure Tabarez non si scompone, è rigido, sembra a disagio mentre riceve gli abbracci dei suoi collaboratori, quasi presagisse la tempesta che lo aspetta lui e la squadra.
Oscar, sta senza pensieri.
Come detto è un attimo di gioia incontenibile, questione di ore,
poi le nebbie tornano ad addensarsi nella testa di Tabarez. Il CT
uruguayano ha bene in mente le dimensioni della sfida che ha davanti:
incontrare la squadra padrona di casa, la più forte per quello che
si è visto finora, dovendo far fronte ad
un evidente decadimento fisico dei propri giocatori, usciti svuotati
anche dal punto di vista mentale dal match con la Corea.
Dall’ambiente filtrano dichiarazioni di soddisfazione per il
passaggio del turno, quasi fosse quello l’obiettivo stabilito in
partenza... della serie la volpe che non arriva all’uva. Le
parole degli stessi membri dello staff
tradiscono rassegnazione, dal preparatore atletico Esteban Gesto,
l’unico con cui Tabarez abbia mai tradito El Profe, che
ammette candidamente la stanchezza dei giocatori, al cuoco della
spedizione che lamenta come neanche una grigliata di churrasco
riesca a risvegliare il loro appetito. C’è una frase tra le tante
dette nei giorni precedenti la partita con la Corea che però fa
capire quanto Tabarez riponesse fiducia nel gruppo a sua
disposizione, o almeno quanto fingesse di averla: «Se
giochiamo con il collettivo possiamo superare qualsiasi avversario.
Se vogliamo esaltare le individualità, ci faremo battere anche dalla
Corea». Nelle menti, ma
soprattutto nei cuori charrúas
inizia infatti a farsi strada un pensiero proibito, a metà strada
tra la speranza e il training autogeno e che trova fondamento nelle
prestazioni fornite qualche mese prima contro Germania e Inghilterra,
nella partita contro l’Argentina dell’ultima Coppa America, nella
stessa amichevole
giocata un anno prima contro l’Italia. All’indomani della
sofferta vittoria con la Corea è lo stesso Tabarez che carica i suoi
premendo su questo tasto: «Andiamo
alla seconda fase con la consapevolezza di affrontare squadre più
preparate e più potenti. Ma non ci preoccupa. Solo
nelle situazioni limite possiamo mostrare il nostro vero volto».
Gli fa eco pochi giorni dopo Enzo
Francescoli, che ai microfoni RAI ribadisce:
«L’Uruguay gioca meglio
contro le grandi squadre».
Consapevole di dover essere più psicoterapeuta che tecnico, il
Maestro risparmia i fisici provati dei suoi uomini, passando
l’ultimo giorno di preparazione a spiegare schemi sulla lavagna
magnetica e astenendosi da faticosi allenamenti pomeridiani.
Una notte quasi magica
A mezzogiorno del 24 giugno decolla da Villafranca il charter che
porta la sgangherata banda di Tabarez a Roma, dove la nostra storia è
iniziata. L’opinione pubblica italiana è tranquilla, preoccupata
più dall’infortunio di Donadoni e dal dualismo Berti-Ancelotti che
da un avversario che ha soffiato all’ultimo minuto il posto di
quarta migliore terza alla Scozia. Dall’altra parte invece la
recondita speranza in un’impresa ai confini della realtà appare
ancora più remota al momento della lettura delle formazioni. Nella
partita più
importante della sua carriera Tabarez lascia fuori Herrera, Paz e
Ruben Sosa! Tra le delusioni maggiori di quel Mondiale, i talenti di
Paz e soprattutto di Sosa vengono sacrificati sull’altare
dell’efficienza massima che El Maestro chiede ai suoi
allievi.
Tempo 20 secondi e l’Italia sembra aver già trovato il modo di
aggirare il fortino eretto da Tabarez, con De Napoli che coglie più
di un avversario fuori posizione al momento di servire Schillaci. Da
una sua sponda per Baggio nasce la prima palla goal che Totò
fallisce al termine di una bella girata. Altro brivido qualche minuto
dopo con De Leon che si perde Schillaci e Dominguez che innesca una
pericolosa carambola davanti al portiere. Baggio poi segna su una
generosa punizione concessa dall’arbitro, peccato non si accorga
che è di seconda.
Il primo tempo sembra non raccontare molto più di questo: un
netto predominio italiano a fronte di un Uruguay rintanato nella
propria metà campo. Quello che forse sfugge ai più però è la
guerra di logoramento che Tabarez ha coscientemente programmato alla
vigilia e che si riverbera negli errori e nei falli commessi dagli
“Azzurri” sul finire di tempo. Tabarez ha messo da parte l’estro
di alcuni dei suoi maggiori talenti in luogo di un più compatto
4-4-2, dove all’“estroverso” Herrera viene preferito il più
coperto Saldanha, l’imprevedibile Sosa ha lasciato il posto
all’altruista Fonseca, più in forma e incline al ripiegamento, e i
piedi buoni di Paz sono stati sostituiti dal fisico di Ruben Pereira.
Uniche sporadiche digressioni dallo spartito del Maestro sono
lo svariare di Francescoli alle spalle delle punte e la velocità di
Pato Aguilera, la cui presenza dal primo minuto fa capire come
il CT intenda servirsi di ripartenze fulminee per stendere il Golia
“azzurro”.
Totò, Gutierrez e Saldanha in un quadro rinascimentale.
A fotografare bene la situazione è Sandro Mazzola, seconda voce
di Pizzul, che interpreta il malumore del pubblico dell’Olimpico
come riflesso della mancata pressione che, dopo il primo quarto
d’ora, ci si sarebbe attesi dall’Italia per tutti i 45 minuti di
gioco. «È difficile
rendersi conto che è l’avversario che non te lo permette»,
conclude Sandrino. In apertura di secondo
tempo la foresta di mangrovie che Tabarez ha piantato nella
propria metà campo appare più fitta di prima, inducendo all’errore
gli stessi giocatori italiani. Da un lancio sbagliato di De Napoli
parte un’azione di Fonseca che dopo aver superato Maldini e Baresi
riesce a mettere il pallone in area: «non
male questo Fonseca, giocatore ventunenne che interessa al Cagliari»
dice Bruno Pizzul dell’attaccante del Nacional, il
cui trasferimento era stato già definito una decina di giorni prima.
Vicini toglie Berti e butta dentro il pennellone Serena per cercare
almeno un punto di riferimento in mezzo alla selva uruguayana. Gli fa
eco poco dopo Tabarez, che manda in campo il grande escluso della
vigilia, Ruben Sosa, al posto del poco incisivo Aguilera. Al 58′
una punizione ad effetto di De Agostini che ricorda non poco la
prodezza di Roberto Carlos contro la Francia, trova un Alvez stoico,
che a costo di rompersi braccio e spalla sinistra, salva il
risultato.
Oh, non sarà Roberto Carlos, ma guarda come gira...
Con il passare del tempo le squadre si allungano e anche
la disciplina difensiva dell’Uruguay a tratti viene meno. Le sponde
di Serena dal cuore della retroguardia uruguayana, rendono giocabili
palloni che prima sarebbero stati facile preda degli uomini di
Tabarez, in costante (ed estenuante) raddoppio sul portatore di
palla. Sette minuti dopo, quando la muraglia “celeste” inizia a
mostrare le prime crepe, Baggio addomestica un rinvio di Zenga e di
prima serve Serena. È nell’incredeibile rapidità di esecuzione
del “Codino” che i nostri attaccanti guadagnano il tempo di
vantaggio necessario a sorprendere la retroguardia uruguayana che,
totalmente disallineata, concede a Serena la profondità per servire
Schillaci che di prima intenzione telecomanda un missile a infrarossi
che si alza e poi si abbassa al sentire il calore della rete, giusto
in tempo per scavalcare il portiere e infilarsi sotto la traversa.
A questo punto il Mondiale dell’Uruguay può dirsi concluso.
Costretto a fare la partita, con Sosa ancora lontano parente di
quello che solo un anno prima vinceva il titolo di miglior giocatore
del Sudamerica e l’irritante leziosità di Francescoli, che non mi
stupirei avesse provato il dribbling anche nel tunnel che porta agli
spogliatoi, Tabarez vede i suoi piani stravolti. In controtendenza
con il luogo comune e con una certa scuola di pensiero che vede nella
fallosità una componente necessaria, oltre che tradizionale, del
calcio urugayano, la squadra di Tabarez è la meno fallosa della
prima fase, con 86 falli subiti e solo 41 commessi. Non un caso per
chi conosce El Maestro, che ha letto Galeano e sa bene come il
miracolo del Maracanazo, più che della garra, fu
prima di tutto frutto di un gioco capace di costringere il Brasile a
21 falli contro gli 11 degli uruguayani. In quella partita contro
l’Italia Tabarez fa di necessità virtù, rinunciando ai suoi
ambiziosi piani di rinnovamento e rispolverando la vecchia immagine
di squadra scorbutica e scaltra che la “Celeste” si è trovata
appiccicata addosso con il passare degli anni. All’inizio del
secondo tempo l’Uruguay ha già 26 falli al suo attivo e quando
Vicini inserisce Vierchowod per Baggio, la speculare contromossa di
Tabarez: fuori Ostolaza, dentro Alzamendi a fare il terzo attaccante,
è il segnale della resa. El Maestro non ha più carte a
propria disposizione e l’ingresso dell’ennesimo attaccante è
solo la conferma di come l’impresa finemente programmata e
accarezzata per più di un’ora sia ora solo affidata al caso, alla
fortuna, al colpo individuale.
Le Nazionali di Tabarez sono tra le meno fallose nella sanguinosa storia del calcio uruguayano.
Controvoglia, l’Uruguay mette il muso fuori dalla propria metà
campo dove trova un’Italia che ovviamente pensa solo a difendere e
ripartire. I tiri da fuori di Perdomo sono frecce spuntate che si
infrangono contro un blindato. A sette minuti dalla fine Giannini
batte una punizione dalla tre quarti di destra, l’unico italiano in
area è Aldo Serena, che sfugge alla marcatura di tre difensori che
danno quasi l’impressione di disinteressarsi di lui. A Serena basta
sgomitare un po’ con Gutierrez per segnare di testa il 2-0 e
festeggiare il più dolce dei compleanni.
Tra gli “olè” che accompagnano il palleggio degli “Azzurri”
e il pubblico che abbandona per tempo l’Olimpico finisce
l’avventura di Tabarez sulla panchina dell’Uruguay. Il primo,
intenso capitolo della storia d’amore tra un austero filosofo che
ha deciso di insegnare calcio e una signora non più nel fiore degli
anni ma il cui abito celeste non smette di esaltarne l’aristocratica
bellezza.
Non molti ci avranno fatto caso, soprattutto da questa parte dell'oceano, ma l'anno che sta per concludersi è stato il decimo consecutivo di Oscar Washington Tabarez sulla panchina dell'Uruguay. Questa serie di post che vado ad inauguarare è dedicata a lui, ai suoi 40 anni di carriera, agli infiniti aneddoti che hanno costellato la sua vita e che hanno fatto di lui semplicemente El Maestro.
Fischio finale, Cile
3 Uruguay 1. I rossi fanno festa, in campo ci si scambia qualche
maglia, una pacca sulla spalla tra compagni di club. L'allenatore del
Cile Juan Antonio Pizzi si alza, rimuginando sulle ovvietà che dovrà
dire ai giornalisti nel dopo-partita. Sulla panchina dell'Uruguay
invece c'è un signore anziano che ripone gli occhiali nel fodero, borbotta qualcosa e se ne sta lì, seduto, aggrappato alla sua
stampella, in attesa forse che qualcuno lo aiuti a salire in sella al
suo scooterino. È Oscar Washington Tabarez che, alle prese con una
neuropatia che da mesi ne sta mettendo a dura prova le capacità
fisiche, la scorsa notte ha
festeggiato le 173 presenze alla guida dell'Uruguay. Un record a livello di Nazionali, fatto di 139 panchine consecutive dal 2006 ad oggi, che
sommate alle 34 accumulate alla fine degli anni Ottanta ne fanno il
CT con più presenze nella storia del calcio. Un record di costanza e
longevità che in questa biopic da fiction RAI facciamo partire dalla
notte del 25 giugno 1990, una notte magica.
Roma, Stadio Olimpico, ore 21:00. È
un caldo lunedì sera, reso ancora più afoso dai riflettori che
inondano di luce il terreno di gioco dove due uomini sanno fin troppo
bene come il loro Mondiale potrebbe finire la notte stessa. Da una parte il nostro Vicini, il paterno tecnico di Coverciano alle prese con il malumore
di Vialli e Carnevale e la contemporanea esplosione degli outsider
Schillaci e Baggio. A pochi metri dalla sua area tecnica invece siede
quello che tutti chiamano El Maestro: completo grigio, cravatta e una
perenne smorfia che gli disegna sul volto un sorriso sofferente. Ma
Tabarez chi è veramente? Come è arrivato quella sera a giocarsi il traguardo di
una vita, all'Olimpico, a Roma, il centro del mondo in quell’estate
italiana? Ma soprattutto, come riesce a scaldare ancora, nel 2016, la
stessa panchina che occupava nel 1988, quando i portieri ricevevano
ancora i retropassaggi con le mani?!
El Maestro è chiamato così non solo per l’autorità che
ormai gli è riconosciuta nella storia del calcio uruguayano ma anche
perché maestro lo era davvero, maestro
elementare per la precisione, un mestiere che
per qualche anno Oscar riuscì a conciliare con la carriera da
calciatore. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta il giovane
Tabarez è un poco promettente difensore della IASA (Institucion
Atletica Sud America), piccola squadra di Montevideo abituata a
salire e scendere dalla prima divisione. Nel 1968 ha l'onore di
affrontare il grande Alcides Ghiggia, l'eroe del Maracanazo che,
ormai ultraquarantenne, ha scelto di raccogliere gli ultimi applausi
girando il Paese tra le fila del Danubio. Nel frattempo Tabarez,
forse consapevole del suo non immenso talento, continua a studiare.
Nel 1971 consegue la Laurea in Magistero all'Università di
Montevideo che lo abilita all'insegnamento, la professione che
eserciterà nelle scuole elementari di Villa del Cerro. Il Cerro,
com'è chiamato abitualmente, è un barrio sorto
nell'Ottocento sul lato occidentale della baia su cui si apre la
capitale uruguayana per accogliere le migliaia di immigrati in arrivo
dall'Europa. Sono i rumori e gli odori di questo quartiere popolare
che Tabarez porta con sé lungo tutta la sua carriera, una carriera
anonima, passata tra squadre di mezza classifica e a cui i problemi
alle ginocchia che lo accompagnano tuttora hanno messo fine a soli 32
anni.
Nel 1980 la sua ultima squadra, il Bella Vista di Montevideo, gli
dà fiducia. Qui Tabarez fa la conoscenza di José Herrera, El
Profesor o, com'è noto ai più,
El Profe, ovvero il preparatore atletico che lo
accompagnerà per il resto della sua carriera. Tempo tre anni e la
Federazione decide di affidare a quel giovane allenatore l’Under
20. Un antipasto con la “Celeste” di appena un anno, giusto il
tempo di vincere i Giochi Panamericani e salutare. Ad aspettarlo
infatti c’è il Danubio, dove Tabarez fa la conoscenza di un
ragazzino che anni dopo troverà “un certo” spazio nel suo
Uruguay: Ruben Sosa. Seguono un secondo e un quarto posto alla guida
dei Wanderers, dove allena due dei suoi futuri collaboratori più
stretti, Celso Otero e Mario Rebollo, infine arriva la grande
occasione: il Peñarol.
Il clan Tabarez. Da destra: El Profe, Mario Rebollo, El Maestro, Celso Otero.
A fronte di un deludente ottavo posto in patria, Tabarez compie il
suo capolavoro sul palcoscenico continentale dove conquista al primo
colpo la Coppa Libertadores. È una finale interminabile quella che
si consuma in tre atti tra Peñarol e America Cali. Una vittoria per
parte, senza goal in trasferta che valgono doppio e aggregate,
costringono le due squadre ad affrontarsi nella bella, da giocarsi in
campo neutro a Santiago del Cile. La partita
è abbastanza equilibrata, anche se il Peñarol meriterebbe il
vantaggio dopo un bel goal annullato per fuorigioco e un rigore netto
negato dall’arbitro. Dopo quasi 120 minuti il risultato è ancora
bloccato sullo 0-0 quando nell’area dei colombiani piove un pallone
che l’attaccante Jorge Cabrera addomestica e con il tacco scarica
dietro per un compagno che tira a fil di palo. Lo storico
commentatore uruguayano Carlos
Muñoz accompagna il tutto con: «bomba,
bomba, bomba, ahi ahi ahi!»
Un’ottima suoneria per tutti i tifosi del Peñarol. Quando sembra
tutto finito e gli allenatori pensano già alla lista dei rigoristi,
Diego Aguirre scarta due uomini e raggiunge il limite dell’area
dell’America, dove piazza un sinistro a incrociare che batte
Falcioni.
Tabarez ha già un piede nella storia del calcio uruguayano. È il
1987, sembra il 1977. Ecco, osservare le immagini di quella finale
credo sia il modo migliore per cogliere come Tabarez sia riuscito
veramente ad attraversare il tempo. Arbitro e guardalinee vestono di
un nero rigoroso, in mezzo ai cartelloni pubblicitari si legge ancora
“Polaroid”, l’America è in campo con Julio Falcioni e Ricardo Gareca, che chi conosce un minimo il calcio sudamericano sa essere stimati allenatori sulla sessantina, infine e soprattutto, questo qui sotto
è il portiere del Peñarol.
Frank Zappa arriva a Montevideo durante il tour mondiale del 1977.
Sono dettagli che scavano una distanza insormontabile tra il
nostro presente in HD e i baffi di Eduardo Pereira, insormontabile
per tutti, ma non per El Maestro. Pochi mesi dopo, sotto la
neve di Tokyo, sfiora la Coppa
Intercontinentale, fermato solo da un goal di Madjer ai
supplementari... Madjer, che giocava con Juary, giusto per ribadire
da quale epoca proviene Tabarez. Ancora fresco del successo in
Libertadores, arriva comunque una nuova chiamata dalla Federazione.
C’è un Sudamericano Sub-20 da giocare e una qualificazione al
successivo Mondiale di categoria da guadagnare. Il quarto posto
finale non basterà a Tabarez per portare i suoi ragazzi a giocarsi
la fase finale in Cile ma convincerà ugualmente i vertici del calcio
uruguayano ad affidargli le redini della "Celeste", quella vera, quella
due volte campione del mondo, quella che a Italia 90 non può fallire.