La Sindrome di Istanbul
Il campionato turco inghiotte ogni anno tra le sue fauci decine di calciatori che vi si avventurano alla ricerca di una seconda chance. Quella per la Turchia è davvero una strada senza ritorno? Genesi e sviluppo di un fenomeno epidemiologico.
Non è
riuscuta l'impresa a cui era chiamato martedì scorso Wesley
Sneijder: salvare il Nizza dalla furia del Napoli e portare la sua
nuova squadra ai gironi di Champions. Il compito era arduo ma è già
un indizio sul probabile futuro in Francia dell'olandese dopo il suo
ritorno dall'esilio turco al quale era stato convinto la bellezza di
quattro anni fa dal suo ex allenatore e confidente José Mourinho. È
proprio Sneijder infatti che mi ha riportato alla mente una
riflessione che covavo da tempo e che qui ho voluto mettere alla
prova dei fatti.
Dalla
Turchia non si torna, questo è il succo del discorso. Non che non ci
sia stato in passato chi abbia provato a raggiungere a nuoto le coste
bulgare e risalire il Danubio fino ai confini dei maggiori campionati
europei ma... Felipe Melo, Samuel Eto'o, Reto Ziegler, Milos Krasic,
Dani Guïza... vi bastano? Sì, dalla Turchia si può tornare, basta
un volo Turkish di poco più di due ore, ma non si può fingere che
le cose siano le stesse di quando si è partiti.
Eziologia
Ma
cos'è questo buco nero che si spalanca ai confini dell'Europa e che
inghiotte il talento e l'energia vitale di quei calciatori che osano
varcare la soglia della Sublime Porta? La Türkiye
1. Süper Futbol Ligi, comunemente chiamata Süper Lig, è dal 2001 il massimo campionato
di Turchia, la nuova lega che all'inizio del millennio, in un Paese
in piena recessione economica e alle prese con un'instabilità
politica da cui prenderà forma il neo-sultanato del presidente
Erdogan, intede cavalcare l'onda del boom che il movimento calcistico
nazionale sta vivendo in quegli anni. La Coppa UEFA conquistata dal
Galatasaray nel 2000 e le buone prestazioni mostrate qualche mese più
tardi dalla Nazionale agli Europei accendono i riflettori su un
calcio rimasto quasi sempre ai margini dell'Europa, confinato
decisamente al di là dello Stretto dei Dardanelli. Dal 1959, anno
della fondazione ufficiale del primo campionato professionistico,
agli anni Novanta si può dire che la forza di attrazione esercitata
dalla Turchia verso l'esterno non sia mai andata oltre i Balcani, da
dove, escluso qualche avventuriero scandinavo, arrivava la gran parte
dei giocatori di importazione. Alla fine degli anni Ottanta, in un
contesto di ripresa economica e con il Paese sulla via di una
tribolata democratizzazione, anche il calcio comincia a concedersi i
suoi lussi come il tris di brasiliani reduci di Spagna 82 formato da
Eder, Serginho e Carlos che il Malatyaspor decide di regalarsi nel
1988. Nello stesso anno arriva al Fenerbahce nientemeno che lo
storico portiere della Germania Toni Schumacher, seguito poco dopo
dal suo omologo belga Jean-Marie Pfaff, che a 36 anni suonati cede
alla corte del Trabzonspor e chiude la carriera sulle spiagge del Mar
Nero. Contemporaneamente il Besiktas intrattiene strane relazioni
oltremanica che portano vari giocatori britannici sulla sponda
bianconera di Istanbul, tra cui un giovanissimo Les Ferdinand in
prestito dal QPR.
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Carlos, Serginho e Toni Schumacher in Malatyaspor-Fenerbahce. |
È
la timida apertura di un movimento lontano anni luce dal livello
medio dei maggiori campionati europei ma che già all'epoca fa
registrare i primi exploit. Risale infatti al 1989 la semifinale di
Coppa dei Campioni che il Galatasaray raggiunge grazie agli
investimenti dell'influente presidente Ali Tanryar, mancato proprio
quest'anno all'età di 103 anni e già Ministro dell'interno,
fondatore dell'allora partito di governo e azionista di lungo corso
del club. Il calcio turco esce nuovamente dall'anonimato a metà anni
Novanta quando il Torino acquista il giovane attaccante Hakan Sukur,
trent'anni dopo il laziale Can Bartu, ultimo giocatore turco a
militare in Serie A alla fine degli anni Sessanta. È questo il
periodo in cui cominciano a vedersi i primi acquisti miliardari da
parte dei principali club di Istanbul. Nel 1996 il Galatasaray versa
nelle casse del Barcellona quasi 4 milioni di euro, a occhio e croce
7 miliardi di lire, per Gheorghe Hagi, che all'epoca ha 31 anni e
lascerà la Turchia solo da ex giocatore. Il nuovo corso del
presidente Farouk Süren, sotto la cui presidenza il Galatasaray
vivrà il periodo più vincente della sua storia, si distingue però
anche per le spese ingenti che la dirigenza riserva non solo a
campioni sul viale del tramonto ma anche per giovani seguiti da
squadre provenienti da campionati più quotati. È il caso dei poco
più che ventenni Adrian Ilie e Iulian Filipescu, per i quali Süren
paga alla Steaua Bucarest 3 milioni di euro. A completare quella
campagna acquisti si aggiungono anche il nazionale svizzero Adrian
Knup e il giovane Ümit Davala, il cui fantasma farà visita anche a
Milan e Inter. Se il Galatasaray cambia passo, i rivali del
Fenerbahce non stanno a guardare... e giù 7 miliardi all'Eintracht
Francoforte per il giocoliere Jay-Jay Okocha. Siamo nell'estate del
1996, quella delle Olimpiadi di Atlanta e dell'Europa che va a caccia
dei medagliati nigeriani, naturale quindi che il Besiktas risponda
portando in Turchia Daniel Amokachi, giocatore tra i più in vista
della squadra campione olimpica e con già qualche anno di Premier
League alle spalle.
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Derby nigeriano tra Amokachi e Okechukwu in Besiktas-Fenerbahce. |
I
tempi stanno cambiando, le bandiere si ammainano e gli investimenti
lievitano. Lo sa bene il presidente del Fenerbahce Ali Şen che dopo
aver scaricato due idoli della tifoseria come Aykut Kocaman (non a
caso oggi allenatore dei gialloblu) e Ogüz Cetin, fa segnare un
nuovo record per il calciomercato turco sfiorando i 20 miliardi per
prelevare dal Bursaspor il bosniaco Elvir Baljic, uno che un paio
d'anni più tardi vedremo con la maglia del Real Madrid. Il
Galatasaray nel frattempo rivende Ilie al Valencia e reinveste la
plusvalenza nell'esperto Gica Popescu.
Come
detto, il 2000 è un anno particolare per il calcio turco ed è in
quell'estate di diciassette anni fa che anche il mercato fa
registrare il salto di qualità. Il Galatasaray è la prima squadra
turca ad aver conseguito un titolo europeo e la buona prova offerta
dalla Nazionale ad Euro 2000 non fa che moltiplicare il valore dei
suoi giocatori. Il presidente Süren sacrifica il pezzo da novanta
Hakan Sukur, su cui l'Inter mette le mani già a metà luglio, e
trattiene gli altri gioielli Emre, Fatih e Ümit. Lo sforzo economico
maggiore però sono i 17 milioni di euro, più di 30 miliardi di
vecchie lire, che la società sborsa per portare in Turchia Mario
Jardel. Noi ce lo ricordiamo triste e appesantito con la maglia
dell'Ancona ma nei primi anni Duemila Jardel è un giocatore integro,
non ha ancora 27 anni, è nel giro della Nazionale brasiliana e
soprattutto è di gran lunga il maggior realizzatore in Europa, con
una media di trenta goal a stagione e una Scarpa d'Oro all'attivo. È
un acquisto che dall'esterno contribuisce a cambiare la percezione
del campionato turco e amplifica l'appeal di un torneo dove anche i
club inglesi, spagnoli e italiani iniziano a fare la spesa. Se
l'Aston Villa spende quasi 20 miliardi per il difensore del
Fenerbache Alpay e un giocatore nel pieno della forma come Jardel
finisce al Galatasaray, allora oltre il Bosforo deve esserci qualcosa
di più che piatti di köfte e caffè.
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Jardel ha appena castigato il Real Madrid. |
Per
capire che Jardel sia stato un buon investimento e che la Turchia sia
ormai pronta ad entrare in Europa, almeno quella calcistica, non
bisogna attendere più di un mese. Il 25 agosto 2000, a Montecarlo,
il Galatasaray sbaraglia il Real Madrid nella Supercoppa Europea
grazie a una
doppietta del brasiliano.
Qualche mese più tardi è ancora il Real che si mette tra il
Galatasaray e la storia, questa volta riuscendo a sbarrare la strada
ai giallorossi che, dopo la vittoria per 3-2
dell'andata, avevano la semifinale di Champions a portata di mano.
Jardel
torna in Portogallo, la disapora turca partita alla conquista
dell'Europa dopo il terzo posto ai Mondiali 2002 se ne torna quasi
tutta a casa con la coda tra le gambe e per qualche tempo nella
neonata Süper Lig non si sentono nomi altisonanti se non quello del
Burrito
Ortega, per pochi mesi trequartista designato del Fenerbache. Il
campionato turco inizia così la propria metamorfosi da esotica
residenza per anziani in cerca del buen retiro a torneo di secondo
piano ma con vista sull'Europa che conta. Non sono più gli USA, il
Qatar o la Cina, dove tralaltro la
pacchia sembra stia per finire,
ma rappresenta sempre più spesso un valido compromesso tra soldi e
carriera. Una crescita media superiore al 6% annuo trascina
il Paese fino al termine di un decennio nel quale le disponibilità economiche e
la relativa competitività dei club di Istanbul, ma non solo, spesso
e volentieri convincono giocatori non più sulla cresta dell'onda ma
ancora interessati a una scelta tecnica oltre che al portafoglio. La
Turchia diventa la terra promessa del possibile riscatto, il luogo
dove riprendere in mano una carriera senza perdere di vista l'Europa,
la meta di un viaggio della speranza che quasi sempre però si rivela
essere senza ritorno.
Alcuni case studies
Sono passati ormai dodici
anni da quando un ancora giovane Nicolas Anelka fugge dal grigio
inverno di Manchester per ritrovare smalto nel calore del Şükrü
Saraçoglu di Istanbul, la casa del Fenerbache, e rilanciarsi in
Premier, prima al Bolton e poi al Chelsea, dove vincerà tutto. Ma
quanti possono dire di aver fatto altrettanto, quanti sono riusciti a
non farsi risucchiare dalla generale mediocrità della Süper Lig o
hanno preferito gettare la spugna e tornarsene a casa, quanti invece sono rimasti stregati dalle magiche atmosfere d'oriente e hanno
deciso di stabilirsi in Turchia definitivamente, insomma quanti sono
i supersititi della sindrome turca?
Per dare una parvenza di
scientificità al mio ragionamento ho deciso di mettere giù una
statistica molto grezza ma che possa dare un'idea di massima
dell'effetiva ragion d'essere di questo delirio che mi sono preso la
briga di spiegare. Basandomi sui dati di transfermarkt.com
ho provato a verificare quali giocatori stranieri giunti in Turchia
negli ultimi anni siano poi riusciti effettivamente a rilanciare la
propria carriera. Il campione selezionato prende in considerazione
una trentina di nomi più o meno celebri che coprono un arco
temporale di dodici anni a partire dalla stagione 2000/2001, quella
del fatidico arrivo di Jardel, alla 2012/2013, quando il Fenerbahce
decise di acquistare colui che avrebbe dovuto essere il salvatore della Juve pre-Conte Milos
Krasic. Per quanto arbitari, i parametri scelti per verificare il presunto “successo” cercano di tenere in considerazione variabili
abbastanza rappresentative come l'eventuale ritorno nei principali
campionati europei (Spagna, Inghilterra, Italia, Germania e Francia)
nelle successive tre stagioni, l'eventuale ingaggio da parte di
squadre di rilievo, l'effettivo coinvolgimento nelle nuove squadre di
appartenenza e le fluttuazioni della quotazione di mercato dal
momento dell'arrivo in Turchia a quello della partenza. Il campione
esclude per ovvi motivi le ultime stagioni dato che molti giocatori
arrivati recentemente sono ancora impegnati in Süper Lig o hanno
cambiato aria da meno di tre anni (tranne Felipe Melo, le sue due
stagioni all'Inter le ho volute inserire lo stesso... ghghgh).
Infine, giusto per sfoltire il gruppo da chi ragionevolmente è
arrivato nella penisola anatolica pensando più alla pensione che a
una seconda possibilità, ho escluso i giocatori che al momento
dell'arrivo in Turchia avevano più di trent'anni, quindi Roberto
Carlos: sei fuori!
Suddividendo
il grafico in quattro parti e tenendo come riferimento il punto che
taglia a metà l'asse delle ascisse, in alto a destra troviamo i
pochi che possano dirsi scampati ai nefasti sintomi della misteriosa
sindrome... eppure. Eppure ci sono dei distinguo da fare. Se quello
di Anelka è probabilmente l'unico vero caso di guarigione completa
di un caso conclamato, lo stesso discorso non vale per Ribery di cui,
confesso, ero completamente all'oscuro dei suoi sei mesi passati in
Turchia. Il francese è quello che avrà la carriera più brillante
tra i presenti, tuttavia non mi sento di diagnosticargli una reale
forma di sindrome di Istanbul dato che arrivò giovanissimo e
semisconosciuto prima di rivelarsi a Marsiglia e affermarsi a Monaco
come uno dei migliori esterni del nuovo millennio. Chi può dirsi
guarito completamente o quasi è anche John Carew, aiutato anche da
una rivalutazione di mercato notevole se paragonata a quella degli
altri giocatori analizzati. Soprattutto a Lione infatti il norvegese
riuscirà a riproporsi ad alti livelli vincendo campionati e ben
figurando in Champions League prima di accasarsi all'Aston Villa per un finale di carriera che lascerà un po' di amaro in bocca. Altro caso controverso è quello di Emiliano Insua
che, favorito anche dalla giovane età, ha lasciato il Galatasaray
con un valore di mercato superiore a quello del suo arrivo, non
riuscendo tuttavia a mantenere le molte promesse che una decina di
anni fa convinsero il Liverpool ad acquistarlo non ancora maggiorenne
dal Boca.
Posando
lo sguardo poco più in basso invece il quadro è sconfortante con
decine di giocatori che hanno visto il proprio cartellino svalutarsi
anno dopo anno mentre coloro che hanno contenuto la perdita partivano
da un valore già ridotto al minimo, come Abel Xavier che nonostante
tutto, nel suo viaggio di ritorno dalla Turchia, riuscì a strappare,
non si sa come, un contratto alla Roma. Il panorama tuttavia appare
meno fosco tenendo d'occhio la performance, con diversi giocatori che
pur non facendo mai il botto sono riusciti a ricostruirsi una
carriera di tutto rispetto, magari proprio in Turchia. È il caso di
Quaresma, capriccio di Mourinho salutato tra le pernacchie dei tifosi
interisiti che ancora si sognano la sua trivela,
ma che tra Porto e Besiktas è riuscito a ritrovarsi, a riconquistare
la Nazionale e pure a vincerci un Europeo. Una parabola simile a
quella di Alex, che dopo la bocciatura senza appello ricevuta a Parma
trova nel Fenerbahce una
nuova famiglia che nei suoi otto anni di onorata militanza lo elegge
suo Comandante,
oltre a conservarne maglia e scarpe in un mueso.
Altra storia di parziale successo è quella di Lorik Cana che con il
Galatasaray è riuscito ad attirare le attenzioni della Lazio
diventandone un elemento importante prima di guidare l'Albania agli
ultimi Europei. Assoluzione anche per il rumeno Moldovan, che dopo
due anni passati al Fenerbache sbarca in Francia, dove si aspetta
tutto tranne che di vincere il campionato al suo primo anno con il
Nantes, oppure per Elano e Ortega, che pur lasciando l'Europa con
qualche rimpianto, una volta tornati a casa hanno avuto un finale di
carriera dignitoso, nonostante una pericolosa caduta nell'alcol
dell'argentino. Ci sono poi figure mitologiche come il trecciato Kiki
Musampa, che i più nostalgici ricorderanno ai tempi dell'Ajax o il
russo Beschastnykh, meteora ai tempi della Liga su TMC con il
Santander, che dopo i trascorsi in Süper Lig hanno fatto perdere le
loro tracce, dando adito alle voci che li vogliono fuggiaschi in
qualche sperduta grotta della Cappadocia.
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Alex e Anelka ai tempi del Fenerbahce. |
Ci
sono volte però in cui non sono i soldi, o almeno non solo quelli, a
fare la differenza. Il calore del tifo turco è ampiamente
riconosciuto e se c'è un Paese nel quale la passione per il calcio
si vede a occhio nudo, per le strade, nella quotidianità delle
persone, questo è senz'altro la Turchia. Ricordo ancora con stupore
il clima frizzante che si respirava tra i tifosi del Besiktas
nell'ormai lontana estate del 2010. Volti sorridenti, ammiccanti,
anche di prima mattina. Qualche battuta con il fornaio e il
negoziante sotto casa. Non c'è imbarazzo, dopotutto cosa c'è di
male a indossare sul luogo di lavoro la maglia bianconera delle
aquile? Le parole si inseguono veloci, incomprensibili al turista che ne coglie solo l'allegria, un'allegria che diventa
intelligibile quando l'orecchio capta qualcosa di familiare: «Guti»,
un suono facilmente confondibile con una delle tante “ü” e
consonanti dure presenti nella lingua turca, ma che non può essere un caso, non quell'estate.
Quella infatti è l'estate di Guti che arriva dal Real Madrid, di
Quaresma che palleggia al vecchio Stadio Inönü e della
città che diventa un arcobaleno di maglie: giallorosse, gialloblu,
bianconere, mentre il nome di quel vecchio calciatore turco è il tuo
lasciapassare per una bibita gratis al chiosco. Grazie Sergen Yalcin.
Ditemi
poi in quale altro luogo della Terra Nordin Amrabat, mica Van Persie,
avrebbe potuto sperare in un'accoglienza
simile?
Dov'è che l'arrivo di Gary Medel potrebbe venire celebrato con una
diretta
TV
e un tifo da stadio già all'aeroporto? Quale altro Paese potrebbe
ricompensare i due anni passati al Besiktas da Pascal Nouma, ex punta
francese, di professione “nuovo Weah” ai tempi del PSG, con un
ruolo nel capolavoro Dünyayi
Kurtaran Adam'in Oglu,
più noto con il titolo di Turks
in Space?
Insomma, se lo stesso Nouma, intervistato dal quotidiano nazionale
Hürryet, dichiara di sentirsi un turco a casa propria, un motivo ci
deve essere.
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