venerdì 7 ottobre 2016

Operazione Nostalgia è una cacata pazzesca?

Alla fine il bubbone è scoppiato. A dare voce a un risentimento che da un po' serpeggia tra antinostalgici militanti e alcuni nostalgici della prima ora, insomma i Pizzarotti della nostalgia, sono state quelle “zecche rosse” di Minuto Settantotto, che qui sollevano inquietanti ombre sui piani di marketing che si celerebbero dietro al successo di Operazione Nostalgia. Pro e contro della pagina che ha reso la nostalgia di moda, o come dicono i social media strategist, virale.



Se la nostalgia si recinta, se gli altri sono chiusi fuori da essa, non è più bella; diviene la pretesa di aver conosciuto, saputo, sperato, vissuto più e meglio di altri, di aver avuto una gioventù migliore - il che per carità può essere; ma una gioventù chiusa non è mai avvenuta - e tutto sommato una vita più interessante.

A me la nostalgia piace, se si può dire così, perché mi piace scoprire gli altri; e se abbiamo le stesse nostalgie, per quanto possano essere mediocri o ridicole (una canzone brutta; un calciatore scarso; Alleanza Democratica di Willer Bordon), allora abbiamo qualcosa da dirci, qualcosa da cantare assieme.
(Tamas, Lacrime di Borghetti)

Quella di partire dai propri ricordi di infanzia per andare alla ricerca di storie, aneddoti da condivdere o semplicemente per trovare comunanza dall'altra parte dello schermo, è stata l'idea che ha spinto il sottoscritto ad aprire questo blog e il Tumblr ad esso associato. Credo sia stato più o meno lo stesso per tutta la miriade di siti e pagine Facebook che oggi costituiscono il mare magnum della nostalgia a sfondo calcistico che da un po' sta infestando l'Internet. Un’idea che proprio per il suo radicarsi nel vissuto di una fetta limitata di popolazione, nasce escludente. Può non piacere che ci sia gente che ami riunirsi e ricordare “i bei tempi andati” come umarells davanti al cantiere, ma cosa pensate che possa succedere se portassimo un quindicenune in balera? L'integrazione sarebbe quanto meno difficile se non osteggiata. Da follower, o seguace della “setta”, come quelli di Minuto Settantotto apostrofano il Movimento 5 Schwoch in cui si sarebbe tramutato Operazione Nostalgia (e un po' lo è diventato), parto spezzando una lancia a favore del clima di generale non belligeranza che, un po’ per il piglio dittatoriale del Bini (l’admin-guru della pagina), un po’ per il torpore benefico dato dal trovarsi quotidianamente un Roberto Baggio in bacheca, si è instaurato tra le tifoserie. Alle prime schermaglie tra interisti che riesumano i fantasmi di "Calciopoli" e juventini che prontamente sfoderano gli insidiosissimi "scudetti di cartone", bordate di aneddoti e tormentoni solitamente provvedono a relegare tali discussioni all'oblio, sotto la voce "visualizza altri commenti", con like nella misura dello 0,1%. Alla peggio interviene il "direttorio" nostalgico con cartellino rosso, altrimenti detto ban. È un aspetto da non sottovalutare se pensiamo che stiamo parlando di una pagina che tratta di calcio su una piattaforma come Facebook: praticamente una bomba a orologeria pronta a deflagrare in qualsiasi momento tra insulti, minacce e i profughi che vivono negli hotel di lusso.

Questo secondo me è stato fin qui il pregio maggiore di Operazione Nostalgia, la sua fase costruttiva e distensiva su un campo minato, per noi italiani, come il calcio. Ma come è riuscita la nostalgia a disinnscare l'ordigno?

Qui a mio avviso cominciano ad alzarsi le ombre sollevate da Minuto Settantotto, perché se è vero che la pagina rappresenta un bello spazio di condivisione in cui animi generalmente bellicosi si sciolgono di fronte alla rovesciata di Van Basten contro il Göteborg, è altrettanto vero che questa anestetizzazione del tifo si deve in parte alla natura escludente della pagina, capace da parte sua di canalizzare i beceri istinti solitamente riservati all'opposta tifoseria verso l'opposta generazione, il grande Satana contro il quale scagliare le nostre pietre nel mese di Hajj: i "2000".

Bati e Juan Sebastian oggi se la dabberebbro alla grande.
A loro infatti sono rivolti alcuni dei neologismi che caratterizzano la pagina e che in tanti avversano. Da quel che ricordo nacquero per gioco, al fine di identificare alcuni giovanotti che, per quanto ci fu concesso di vedere, fecero il possibile per meritarsi quegli appellativi. Da sfottò più o meno simpatici, i "bimbicardi" e i "bimbiperisic" hanno poi imboccato la strada dei peggiori tormentoni di Zelig, elevandosi, quello sì, ad aspetto più odioso della pagina. Dallo stesso clima goliardico pare dipendere anche la mancanza di obiettività che a volte traspare e che di fronte a una foto di Vieri e Inzaghi con Chupa Chups a portata di bocca fa sbottare qualcuno: «quelli sì che erano uomini, mica come i fighetti da social di oggi». Come se a cavallo del millennio a indossare le famigerate fascette per capelli non fossero stati  Cannavaro, Nesta e Pirlo. Uscite palesemente a vuoto che però trovano il più delle volte risposte assennate tra gli stessi adepti della "setta". Nello stesso culto per Cleto Polonia mi ostino a vederci niente più che il semplice frutto di un'infautazione giovanile, non una posizione ideologica. Chi è che non si è mai fomentato oltre l'inverosimile per un ruspante operaio di centrocampo o un'ala velocissima vista ai 32esimi di Coppa UEFA?

Infine per quanto riguarda le accuse che vedono in Operazione Nostalgia una mossa commerciale appositamente studiata non mi esprimo: il linguaggio da stratega di marketing denunciato da Minuto Settantotto dà da pensare ma preferisco vederci le conseguenze di un successo inatteso, che guarda caso è andato a sposarsi con la formazione da social media strategist dell'admin. Poi non dite che non sono garantista.

"Voi prendete posizione che io bevo una birra..." (cit.)

In qualità di umile dilettante che guarda i professionisti della nostalgia dalla Promozione (ovvero Tumblr), mi sento di ribadire il mio apprezzamento per un’idea che, al di là degli eccessi (e ce ne sono), secondo me resta lodevole. Non vorrei si finisse per scornarsi a fronte di un'iniziativa che probabilmente è nata dall'esigenza di parlare del calcio della propria infanzia più di quanto si riesca a fare nella vita reale. L'importante credo sia appellarsi il più possibile al buon senso, senza dimenticare che parliamo di calcio, su Facebook. Di calcio su Facebook: il tema nazional-popolare per definizione che viene discusso sulla piattaforma più trasversale e sanguinaria che ci sia. Per questo io mi concentrerei più sul sentimento di fratellanza che Davide Possanzini e il Caffè Mauro hanno dimostrato di saper ispirare tra romanisti e napoletani piuttosto che sul fatto che a noi, radical chic che rimpiangiamo L'ottavo nano, ogni "bimboicardi" suoni come un "Franco, oh Franco".


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domenica 2 ottobre 2016

A kind of magic

Dopo un settembre ricco di anniversari, con i 40 anni di Ronaldo, Totti e Shevchenko, tutti corteggiati se non acquistati dal fresco ottantenne Silvio Berlusconi, oggi celebriamo i 50 anni di un altro pezzo da novanta della nostalgia: "King" George Weah.


Che cosa invidia a Berlusconi?
Weah.
(Walter Veltroni)

Doveva essere uno di quei salotti televisivi dove si parla di calciomercato: «l'anno prossimo il Milan compra Weah». "Ueà", un nome a cui non sapevo dare un volto ma il cui insolito suono, composto da sole vocali, bastava ad evocare un eroe mitico proveniente da terre lontane. Una sorta di Re Scorpione, solo che al posto della potenza pesante e brutale di The Rock c'era quella leggera e felina di un uomo che, prima ancora che vincere le partite sul piano tecnico, le aveva già vinte su quello atletico. Orizzontale o verticale poco importava, se la palla era a terra le sue serpentine sul prato verde lasciavano la scia come un motoscafo con motore Yamaha in mezzo a un nugulo di pattini a Marina di Ravenna. Se la palla era alta prendeva l'ascensore, spesso raccogliendo rimbalzi improbabili, e mentre i difensori si chiedevano quale fossero portata massima e ditta costruttrice, lui aveva già messo in rete. Questo era George Weah.

Giocava ancora nel PSG e imparai a riconoscerlo grazie alle supersfide di Guida al campionato, quelle con A kind of magic dei Queen in sottofondo, roba che solo a scriverla mi sale il magone. Velocità, dribbling, colpo di testa, senso del goal, non so dire con precisione chi assegnasse i voti, probabilmente Maurizio Mosca e Giorgio Chinaglia, in quegli anni ospiti fissi di Sandro Piccinini. Quella domenica, all'ora di pranzo, a Weah misero di fronte Cantona, altro nome caldo del mercato, o almeno questo è quello che ricordo. Fecero vedere i goal contro lo Spartak Mosca, quello contro il Real Madrid, non riproposero il vertiginoso stacco aereo contro il Barcellona perché finì sulla traversa, so per certo che fecero vedere lo slalom contro il Bayern.

23 novembre 1994: Weah tira giù l'Olympiastadion.

Pochi giorni dopo il Milan si sarebbe giocato la semifinale di Champions League contro il PSG e gli occhi di tutti erano puntati su Weah. La grande attesa si concluse con un nulla di fatto, il Milan passò agevolmente sia a Parigi che a San Siro e Weah non fece molto di più che abbozzare qualche cavalcata, sempre smorzata dalla pressione di Baresi, dal recupero di Maldini o dall'anticipo di Filippo Galli. Solo alla fine della partita di ritorno si potè vedere uno sprazzo del Weah che l'anno seguente tutti speravano di poter ammirare in Italia.

Nel 1995, quando Weah sbarca a Milano e vince il Pallone d'Oro, ha 29 anni, è all'apice della carriera, e la maturità acquisita in quasi un decennio di calcio europeo è supportata da una forma fisica perfetta, straripante se consideriamo il livello medio dell'epoca. Per certi versi la sua fisicità lo proietta di qualche anno in avanti rispetto ai suoi simili, di cui appare un prototipo potenziato. Il paragone con il "Fenomeno" è presto servito. Pur tecnicamente dotatissimo, "King George" era meno prolifico e forse non aveva il talento cristallino di Ronaldo, rispetto al quale però, un po' sfacciatamente, mi azzardo a dire che avesse un killer instinct sotto porta anche maggiore. Il colpo di testa, specialità della casa, era decisamente migliore, la coordinazione eccezionale e i mezzi fisici... beh, non me la sento di dire che Weah fosse meno dotato fisicamente di chicchessia. Ai brucianti scatti del brasiliano, ai segmenti secchi che disegnava sul campo, Weah contrapponeva un gioco più "rotondo", fatto di accelerazioni feline e di linee sinuose che andavano ad intrecciarsi con le traiettorie dei filtranti di Savicevic, degli inserimenti di Simone e a quelle dei difensori avversari, che amava aggirare dal fianco. Se Ronaldo sembrava annunciare più o meno consapevolmente l'avvento di una nuova era, ai miei occhi di bambino Weah apparve come il primo supereroe prestato al calcio, a kind of magic.


Quella magia, che nel primo anno al Milan finì diluita nella concretezza di 11 goal e nello Scudetto, si manifestò in un sol colpo l'8 settembre 1996 contro il Verona, nel famoso coast to coast che tutti salutano ancora come il goal più bello di Weah. Non so se fu il più bello, i fortunosi rimpalli a centrocampo di certo ci misero del loro, ma quello sprint palla al piede sembrò il compimento di quello che era stato George Weah fino ad allora e che i più attenti forse intravidero una sera di un anno e mezzo prima, sempre a San Siro.

19 aprile 1995: il magro antipasto offerto da Weah ai suoi prossimi tifosi.

Un giocatore che non aveva bisogno di toccare la palla più di un paio di volte: lo scatto, il pallone che supera il difensore, le poderose leve che sospingono la progressione nel mezzo della savana, ma anche un'estrema elasticità e una rapidità di piedi che all'occorrenza gli permetteva di far sparire il pallone prima di farlo riapparire sull'esterno destro, pronto per essere accompagnato in rete. Ecco, nel coast to coast c'è tutto Weah, ci sono le prodezze che faceva in Champions con il PSG, le zampate che piazzava ai tempi del Monaco, i goal segnati contro la Lazio e la Roma e un pizzico di confusa follia che faceva pendant con la sua andatura dinoccolata. Nel coast to coast c'è tutto, e anche di più. 


Coppa d'Africa 1996: Zaire-Liberia, in diretta, su TMC.
George Weah infatti non si esaurisce sul campo da calcio, c'è una parte di lui che va oltre la sua stessa carriera di calciatore, ci sono il «ciao a tutti belli e brutti», il «magna magna generale» e la carica mistica di ambasciatore d'Africa che gli vale tuttora uno status di semidio e che in Liberia per poco non lo ha fatto Presidente della Repubblica. Bisogna dirlo, Weah è stato il primo giocatore che ha fatto digerire ai nostri delicati stomaci eurocentrici il concetto stesso di "calciatore africano". Non solo attrazioni da luna park, bestie rare da ammirare nel tempo di un safari, menestrelli buoni per lo spettacolo di contorno, George Weah fu il primo che seppe uscire dal recinto di folklore che prima e dopo di lui tenne imprigionati ottimi giocatori come Roger Milla e Jay-Jay Okocha. Il Milan sdoganò l'idea che sì, si poteva lottare per i massimi obiettivi avendo come punta di diamante un calciatore africano. Grazie a Weah il nostro sguardo si trattenne un po' più a lungo del solito su un calcio da sempre visto con sufficienza se non con scherno. Il suo Pallone d'Oro contribuì a rendere l'Africa di moda, buona sui campi di calcio come per pubblicizzare una linea di bagnoschiuma. Fu praticamente solo per attirare gli spettatori rimasti orfani dei suoi colpi che nel gennaio 1996 Cecchi Gori acquistò i diritti della Coppa d'Africa. Il calcio africano gli deve molto, non solo i suoi compagni di Nazionale, a cui George pagava di tasca propria le trasferte, ma anche campioni ben più ricchi e famosi di lui, gente come Eto'o e Drogba a cui Weah, come era solito fare in campo, ha aperto un varco, dando una spallata a pregiudizi duri a morire.

Tutto bene?

Finisco di scrivere questo pezzo che è domenica pomeriggio, sui campi italiani si stanno giocando una manciata di partite di cui, onestamente, mi frega poco. È il 2 ottobre e ieri hai compiuto 50 anni. Auguri "King George".

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