martedì 31 maggio 2016

I giorni di Cesare

A quasi tre mesi dalla scomparsa di Cesare Maldini e a vent'anni esatti dall'ultima vittoria della sua Under 21, ho deciso di fare un po' d'ordine tra ricordi sparsi e impressioni lasciatemi da quel periodo. Ne è uscito questo lungo racconto ispirato alla grande epopea di Cesare e della sua Under 21.


...si diceva il calcio va avanti, diventa sempre più scientifico, sempre più frenetico, eppure con il calcio vecchio, tradizionale, semplice di Maldini si continua a vincere. In realtà proprio le imprese di questa squadra, tre volte finalista, tre volte vincitrice, dimostrano che nello sport il confine tra vecchio e nuovo è molto, ma molto opinabile. Vai Civoli.
Carlo Nesti 31/5/1996


Sono gli ultimi giorni di maggio, le giornate sono sensibilmente più lunghe e sotto i pantaloni, fattisi ormai corti, cominciano a fare capolino le prime sbucciature. Si respira un’aria strana e non sono solo i pollini che minacciano la sopravvivenza dei tuoi compagni di classe allergici alle graminacee. Dalla finestra dell’aula l’azzurro del cielo appare più luminoso del solito e mentre la maestra cerca di dare una parvenza di utilità a quegli ultimi giorni di scuola, nella tua testa di ragazzo prebuscente cominciano a scorrere immagini di partite interminabili giocate con gli amici sotto il sole cocente, di magliette intrise di sudore misto a sangue, avverti distintamente il rumore del pallone rotolare sul cemento abraso del campetto del paese, le madonne che piovono copiose sul malcapitato a cui è toccato il poco ambito ruolo di portiere, mentre più in là, in sottofondo, si ode già lo sgasare dei motorini dei più grandi, che da qualche tempo al pallone sembrano anteporre nuove priorità quali figa e consumo di droghe leggere.

Erano giorni di fine maggio come quelli in cui sto scrivendo oggi, quelli in cui potevi annegare le tribolazioni della tua vita di decenne nella flemma delle telecronache di Carlo Nesti, che con il suo inconfondibile timbro di voce fu la colonna sonora dell'Under 21 di quegli anni, dell’epopea di Cesare Maldini. «Il tiiiro... e il gooool» , potevi trovarti su una qualunque delle tre reti RAI, ma se tornando a casa in un tardo pomeriggio di maggio sentivi quelle poche parole non potevi sbagliare, in campo c’era l’Under e di lì a poco avrebbe vinto gli Europei ai rigori, al golden goal, in dieci, in nove, con ogni mezzo necessario, ma alla fine ci avrebbe fatto credere che per l'Italia vincere era possibile, almeno a livello giovanile.


1992 
Facce da schiaffi
Un’epopea si è detto, ma con i contorni della favola che come insegna Vladimir Propp, prevede sempre un evento sconvolgente in grado di rompere la situazione di equilibrio iniziale. Quell’evento sconvolgente, capace di scuotere tutto l’ambiente “azzurro” fin su nelle alte sfere della Federazione, ha luogo il 5 giugno 1991.

16 gennaio 1991: Cesarone alle prese con i primi problemi.
La generazione che tocca in sorte a Cesarone al principio degli anni Novanta appare meno dotata di quelle precedenti, che poi averceli oggi Albertini e Corini... La maggior parte dei componenti di quella Nazionale non gioca titolare e i restanti si arrangiano in squadre di rincalzo. L’inizio stentato, fatto di una sconfitta e un pareggio nelle tre prime uscite amichevoli, è stato solo parzialmente cancellato dalla vittoria ottenuta per 1-0 contro l’Ungheria nella prima partita di qualificazione. L’umore non è dei migliori ma nulla lascia presagire ciò che si consumerà quel pomeriggio a Stavanger, dove gli “azzurrini” di Cesare Maldini affrontano i pari età della Norvegia nella loro seconda partita ufficiale. Norvegia batte Italia 6-0. Un’eventualità fino a quel momento ritenuta possibile soltanto in un universo parallelo o su un campo di hockey, che sono un po’ la stessa cosa, ma che invece si materializza su un rettangolo verde. «Il record della vergogna» titolerà un quotidiano, una sconfitta storica che farà dire a Matarrese, allora presidente della FIGC, «meritano soltanto schiaffi», rivolgendosi ai giocatori di Maldini. Sotto accusa anche il gioco all’italiana del CT, bollato con l’infamante etichetta di “catenacciaro” proprio nel momento storico in cui la parola “ripartenza” entrava nel vocabolario corrente del tifoso italiano e concetti come difesa a uomo e libero cominciavano a essere avvertiti come sintomi di retrogrado oscurantismo "anti-sacchiano”. A completare il quadro di desolazione nel quale quella giornata gettò l’Italia calcistica, la sera stessa a Oslo, la Nazionale maggiore rimedia la sconfitta che ne compromette la qualificazione all’Europeo dell’anno seguente. Sarà l’ultima partita di Azeglio Vicini sulla panchina “azzurra”, sarà la partita che sancirà l’avvento di Arrigo Sacchi.

Sarebbe bello pensare che dalle ceneri di quel 5 giugno i nostri ragazzi abbiano trovato la forza di riemergere e di dimostrare ciò che nessuno credeva a loro possibile. Non sappiamo se fu quello o semplicemente una fortunata coincidenza di variabili tattiche, ma una settimana dopo, a Padova, la nostra Under gioca alla pari con l’URSS, gran favorita per la vittoria finale e ancora ignara di essere a una manciata di partite dalla fine della sua storia. Una partita equilibrata, al termine della quale la difesa sovietica si arrende a un colpo di testa di Renato Buso. Un goal che forse fu più di un goal ma il segno che una generazione di ragazzi che faticavano ad affermarsi nei rispettivi club stava aspettando. Norvegia e URSS finiranno per togliersi punti a vicenda fino allo scontro diretto con gli scandinavi che qualificherà l’Italia e vendicherà il bruciante 6-0 dell’andata.

La favola entra nel vivo con la fase finale. Allora si giocava semplicemente un tabellone da otto squadre con partite di andata e ritorno, praticamente una Coppa UEFA. Cecoslovacchia e Danimarca sono una formalità prima della finale contro la Svezia. Il giorno della sfida di andata, gli statuari svedesi ricordano da vicino i giganti norvegesi di un anno prima e in certi momenti Ferrara dà l’impressione di potersi trasformare in una nuova Stavanger. All’intervallo, con il punteggio fermo sullo 0-0, un giornalista incalza Matarrese che si improvvisa professore di psicologia sportiva e mette il carico:

«Presidente, delle sculacciate per il primo tempo?»
«Sì, sì, non mi piace.»

A tal proposito, l’allora portiere Francesco Antonioli dirà che proprio il clima di scetticismo che circondava la squadra fu l’elemento che compattò il gruppo, la chiave di un secondo tempo arrembante che a 20 minuti dalla fine vede Buso avere la meglio su due stangoni svedesi e infilare di testa il vantaggio “azzurro”. Qualche minuto dopo Gianluca Sordo appoggia comodamente un pallone servitogli a porta vuota ancora da Buso: 2-0. Pochi giorni dopo, nella partita di ritorno, il goal di Pascal Simpson non basterà agli svedesi per rovinare il lieto fine alla favola di Cesare e dei suoi ragazzi. La generazione “da schiaffi” che giusto un anno prima veniva spernacchiata al suo rientro dalla Norvegia, riuscì ad arrivare dove nessuno era riuscito ad arrivare prima, nonostante il Baggio non fosse più Roberto ma Dino e che al posto della coppia Vialli-Mancini ci fossero Renato Buso e Bobby Muzzi. Una generazione che fece dell’Under 21 il proprio club e che in Cesare Maldini trovò la fiducia che molti dei suoi elementi non riusciranno più a trovare altrove.

1994
Golden Goal VS Golden Generation
Dopo le Olimpiadi in Spagna, terminate ai quarti contri i padroni di casa, nel settembre 1992 comincia un nuovo biennio. Al comando c’è ancora Cesare Maldini che si è guardagnato sul campo la riconferma del presidente Matarrese. L’incantesimo iniziato un anno e mezzo prima a Padova e interrottosi una notte d’agosto a Barcellona, riprende senza intoppi fino alla sfida con il Portogallo.

Quella che per un intero biennio sarà la grande rivale della nostra Under è forse la più talentuosa generazione di calciatori che il Portogallo abbia mai avuto: terza ai Mondiali Under 17 nel 1987, vicecampione d’Europa di categoria nel 1988, campione del mondo Under 20 nel 1991, i Rui Costa, i Figo, i João Pinto non a caso sono ricordati ancora oggi come la Geração de Ouro e a Braga lo dimostrano, svegliando dall’incantesimo i nostri con due sberle.

La "Generazione d'oro".
La nuova infornata di giovani che Cesare si trova ai suoi ordini però ha le spalle larghe e vince tutte le restanti partite, compresa quella di ritorno con i portoghesi che troveremo anche alla fase finale. L’ultimo ostacolo è la Cecoslovacchia. Come due anni prima con l’URSS ci troviamo a seppellire le spoglie di un paese in procinto di scomparire. Ci pensa un ragazzone australiano che si sta mettendo in mostra a Ravenna, Christian Vieri, detto Bobo, a cui fanno seguito due difensori come Panucci e Paolo Negro. Il 3-0 rende ininfluente la sconfitta per 1-0 del ritorno e spedisce Cesare Maldini ancora alla fase finale.

Quella che si gioca nella regione della Linguadoca nella primavera del 1994 è la prima vera fase finale per come la intendiamo oggi. È  una “final 4″ con semifinali e finale oltre a una novità all’ultimissima moda introdotta in via sperimentale ai Mondiali Under 20 giocati in Australia l’anno prima. Praticamente in caso di supplementari, se una delle due squadre segna finisce tutto, così nel bel mezzo della partita. Quelli della FIFA lo chiamano golden goal ma in America, dove esiste da anni, con più pathos lo chiamano sudden death, la morte improvvisa che è riuscita a rendere più avvincenti i playoff di hockey e che Blatter si augura scoraggi le difese dal chiudersi a catenaccio aspettando i rigori.

In semifinale c’è la Francia padrona di casa, che con i portoghesi è la favorita della vigilia. Come nell’edizione precedente, i nostri pagano l’ineseprienza sui grandi palcoscenici, a parte Panucci, campione d’Europa col Milan e già in odore di Nazionale maggiore, gli altri si arrangiano in squadre di non primissima fascia. C’è Fabio Cannavaro del Napoli, di cui si dice un gran bene, c’è Paolo Negro che si sta ritagliando il suo spazio alla Lazio e c’è un gigante di quasi due metri in porta, da poco passato dalla tribuna del Milan alla promozione in A con la Fiorentina, il suo nome è Francesco Toldo. Il già simpaticissimo Raymond Domenech può invece contare su alcuni giovani già da tempo sui taccuini dei talent scout europei, come i girondini Zidane e Dugarry, Lilian Thuram del Monaco, l’attaccante Pascal Nouma, che qualcuno si azzarda a paragonare a George Weah e soprattutto Claude Makelele, che è già un pezzo pregiato di quel Nantes che un anno più tardi vincerà il campionato francese.

Con l’Italia in dieci per l’espulsione di Delli Carri, lo spettro dei supplementari si materializza dopo 90 minuti bloccati. Nei 30 successivi però il tanto atteso golden goal non arriva. Si va così ai cari vecchi rigori. Il terzo tiro dei francesi spetta a Makelele. Toldo, che aveva studiato il suo avversario, ammetterà che i rigori erano un’incognita dato che all’epoca non era così facile reperire materiale su un giocatore famoso più che altro a livello giovanile. Sarà stato un eccesso di sicurezza di Makelele o il già spiccato talento di "para-rigori" di Toldo, ma il piatto centrale del francese è preda facile del nostro portiere. A decidere è Benny Carbone che trasforma l’ultimo rigore e manda l’Italia in finale per la seconda volta consecutiva.

Il 20 aprile a Montpellier si consuma la resa dei conti di una rivalità durata un biennio tra Italia e Portogallo. Come la semifinale, è una partita contratta, dove l’Italia si conferma l’”appassionante cenerentola” che Franco Arturi descrive in quei giorni sulla Gazzetta dello Sport. Un’Italia che soffre ma compensa i suoi limiti con il carattere. Cesare Maldini ha dovuto inoltre rinunciare a Vieri, fermato da un infortunio. Al suo posto c’è Filippo Inzaghi, quanto di più lontano possa esserci dall’ariete australiano. In panchina invece c’è un ragazzone bergamasco che mugugna perché è stufo di vedere le partite da bordo campo. Si chiama Pierluigi Orlandini e non ha la minima idea dell’appuntamento con la storia che lo attende alla fine di quel pomeriggio. Nel frattempo le caviglie di João Pinto fanno la conoscenza di Cannavaro e Toni, giovane attaccante del Braga, fa tremare la traversa di Toldo. Anche qui finisce 0-0. Carlo Nesti ci ricorda con puntualità che con il nuovo regolamento chi segna per primo ai supplementari vince. La partita riprende stancamente, ormai avviata verso un annunciato epilogo dal dischetto. Sulla fascia destra però si agita da qualche minuto quel corpulento ragazzo che dalla panchina stringeva i pugni nelle tasche della tuta. Maldini ha infatti tolto l’inconcludente Inzaghi e mandato in campo proprio Orlandini. Al settimo minuto Cherubini intercetta una palla buttata via da Abel Xavier, sì, proprio lui, e riesce a servire Orlandini che si accentra, punta Paulo Torres e prima che il difensore possa avvicinarsi, molla un destro sotto l’incrocio che non lascia scampo al portiere. L’Italia è campione d’Europa per la seconda volta consecutiva.

Rivedendo le immagini di quella finale, c’è una frazione di secondo in cui si sente il rumore della palla che impatta sulla traversa e che si staglia tra il brusio dei secondi precedenti e il boato di quelli successivi. Quello è il momento in cui Pierluigi Orlandini entra nella storia come l’autore del primo golden goal, anche se a voler essere pignoli non è proprio così ma va beh, non voglio rovinare l’atmosfera. Sarà il momento più felice della sua carriera, quella di un onesto centrocampista che vivrà anche passaggi importanti tra Inter e Milan, ma che raccoglierà meno di quanto quel goal fece presagire. In quella frazione di secondo la storia di Orlandini si incrocia per sempre con quella di un altro ragazzo, che come lui avrà un futuro abbastanza diverso da quello immaginato fino a quel pomeriggio. Fernando Brassard è un retornado figlio della Rivoluzione dei Garofani, che dalla nativa Lourenço Marques (oggi Maputo), in Mozambico, torna in Portogallo e nelle giovanili del Benfica si mette presto alla caccia dei suoi sogni. È alto solo 1,74 ma ciò non gli impedisce di essere il portiere della “Generazione d’oro”, unico insieme a João Pinto a vincere per due volte i Mondiali Under 20. Nel 1994 difende i pali del Gil Vicente nella massima serie portoghese, quella della Nazionale giovanile e dall’alto dei suoi quasi 22 anni ha un futuro radioso che lo aspetta. Arriva al minuto 97 della finale di Montpellier avendo subito un solo goal e anche lui non sa di essere a un passo dall’apice di una carriera che si spegnerà nell’anonimato neanche dieci anni più tardi. Intervistato qualche anno fa da Raitre per una puntata di Sfide, Brassard ci tiene a ricordare come la palla scagliata da Orlandini incontrò le sue dita prima di andare a sbattere sulla traversa ed entrare in rete. Non calcherà  palcoscenico così prestigioso ma quel golden goal in fondo è anche suo.

1996 
Comunque vada sarà un successo

Per quanto riguarda la vittoria del 1996 i miei ricordi si fanno meno nebulosi e non ho bisogno di troppe ricerche su Google per ricordare il diciottenne Buffon fare da riserva ad Angelo Pagotto in porta, in difesa il giovane veterano Panucci che vince il secondo Europeo Under 21, la certezza Cannavaro e il promettente Salvatore Fresi, su cui l’Inter spera di costruire parte del prorprio avvenire. Aggiungiamoci un Nesta, che poche settimane dopo si unirà alla sfortunata spedizione di Sacchi, e abbiamo un reparto che molte nazionali maggiori si sognano tuttora. A centrocampo il solido Tommasi, con i miei idoli Fabio Pecchia e Raffaele Ametrano a supportare l’estro di Massimo Brambilla. In attacco Francesco Totti, Nick Amoruso, Marco Delvecchio e l’ultimo gioiellino del vivaio Atalanta Domenico Morfeo. 


Quella che nella primavera del 1996 prende la strada di Barcellona per giocarsi il terzo titolo Europeo consecutivo sembra una Nazionale degna di quelle che Azeglio Vicini lasciò in eredità a Cesare Maldini. L’ultimo ostacolo prima della fase finale è ancora una volta il Portogallo. La “Generazione d’oro” sta gradualmente confluendo tra i ranghi della Nazionale maggiore ma il quarto di finale è più duro del previsto, tanto che ci presentiamo nella partita di ritorno sotto di uno. A tirarci fuori dai guai è ancora una volta Bobo Vieri, non a caso scelto da Moggi per prendere il posto del partente Ravanelli nella Juve campione d’Europa. Un autogoal di Emilio Peixe ci regala infine il biglietto per Barcellona.

La semifinale è con la Francia che oltre al solito Makelele schiera alcuni giovani che nei quattro anni successivi si riprenderanno tutte le rivincite possibili e con gli interessi, ma questa è un’altra storia e il 28 maggio 1996 basta Totti che ribatte una respinta di Letizi dopo una percussione di Brambilla per mandare a casa i francesi

Due giorni dopo al Montjuic c’è la favoritissima Spagna di Clemente pronta a farci la festa. I campioni in carica siamo noi, i piedi buoni non ci mancano ma ancora un volta ci presentiamo a quella che è ha tutta l’aria di una riedizione della sfortunata finale del 1986, come la vittima sacrificale di turno. Nella Spagna giocano due ragazzi che effettivamente paiono di un’altra categoria. Raul a neanche 19 anni gioca già in pianta stabile nel Real Madrid e il blaugrana De La Peña in quel periodo sembra un fenomeno destinato a palcoscenici ben più importanti del Montjuic dove, ironia della sorte, diventerà l‘idolo dei pericos dell’Espanyol. Ci sono poi due ragazzi non ancora così in vista ma di cui si sentirà presto parlare come “El Moro” Morientes e Gaizka Mendieta.

Spagna-Italia prende subito una piega inaspettata: Ametrano calcia una punizione che passa sopra la testa di Totti ma trova il piede dello spagnolo Idiakez che devia e manda la palla alle spalle del portiere. Niente di meglio che andare al riposo in vantaggio, avrà pensato Cesare Maldini un minuto prima che Raul disegnasse un arcobaleno che dal limite dell’area va ad illuminare la notte di Barcellona per poi spegnersi alle spalle di Pagotto. Sospinti da 34.000 spettatori, gli uomini di Clemente cingono d’assedio il fortino “azzurro”, ridotto in dieci uomini per l’espulsione di Amoruso nel secondo tempo e addirittura in nove dopo la seconda ammonizione di Ametrano nei supplementari. Volente o nolente, Cesare Maldini è ancora una volta costretto al ruolo di “catenacciaro” difensivista che non è altro prima dell’epilogo che, come dieci anni prima, è dagli 11 metri.

Un Raul diciottenne ignaro di cosa stia per accadere.
Nei lunghissimi momenti che precedono il primo turno di battuta c’è però l’aria dell’impresa per aver protratto una partita del genere fino a quel punto. Senza più attaccanti, Maldini manda Panucci a battere il primo rigore, che sbaglia. Un destino già scritto sembra sul punto di manifestarsi e il solito Carlo Nesti si affretta a dichiarare che comunque vada sarà un successo. Marco Civoli, che tra un rigore e l’altro chiacchiera al microfono con Fabio Galante, si lascia andare: «I ragazzi hanno già vinto la coppa, l’hanno conquistata sul campo». In quel momento parte dal dischetto Raul che, come poco prima di lui De La Peña, sbaglia incredibilmente. Morfeo è l’unico giocatore offensivo rimastoci ed è lui che segna il rigore decisivo e regala a Cesarone la gloria eterna. 

Dieci anni prima, quando Cesare Maldini si siede per la prima volta sulla panchina dell’Under 21, sembra arrivato già fuori tempo massimo: un dinosauro che continua a muoversi placidamente con i suoi modi giurassici, ignaro dell‘asteroide “sacchiano” che sta per colpire il pianeta Terra e che ne modificherà per sempre l’ecosistema calcistico. Al termine di quei dieci anni di successi Cesare invece è ancora lì, come uno squalo sopravvissuto chissà come all’evoluzione, alla comparsa dei mammiferi, alla difesa alta e alle transizioni attive sulla tre quarti campo. È lì, al centro dello stadio Montjuic a ricevere i complimenti del suo primo detratorre, quel Matarrese che pochi mesi dopo scaricherà il guru di Fusignano per fare posto proprio a Cesarone, quello che lui chiamava con disprezzo “catenacciaro” non sapendo di fargli il più gradito dei complimenti.

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domenica 15 maggio 2016

Danke Miro

Stasera Miroslav Klose saluterà il suo pubblico per l'ultima volta e la Serie A perderà un altro pezzo. Un omaggio all'unico campione del mondo che il nostro campionato poteva vantare.


La prima volta che sentii parlare di lui ero in vacanza. Era l’estate 2001 e il caso volle che per ingannare gli interminabili momenti che trascorrevano tra la colazione e l'ingresso nel fetido mare della Riviera, decisi di comprarmi qualcosa da leggere. “Gazza” e Corriere non facevano per i miei gusti ricercati, volevo qualcosa di più esotico, così la mia scelta cadde sulla rivista Goals, l’ormai defunto spin-off internazionale di Calcio 2000. Qui appresi dell’esistenza di Miroslav Klose.

Giocava nel Kaiserslautern e veniva presentato come il futuro di una Germania che all’alba del nuovo millennio si presentava ridotta in macerie. Essendo polacco era anche l’antesignano della nuova infornata di calciatori tedeschi fatta di naturalizzati e seconde generazioni. L’anno dopo arrivarono i Mondiali in Giappone e Corea, la tripletta nell’8-0 all’Arabia Saudita, le capriole e il titolo di capocannoniere. Il mondo si accorse di lui.

Era un gran professionista, segnava un casino, prima o poi la grande occasione sarebbe arrivata. Nel frattempo però invecchiava al Werder Brema. L’occasione arrivò a 30 anni e, come per la maggior parte dei giocatori tedeschi, aveva le sembianze di Uli Hoeness che ti invita a venire a giocare nel Bayern. Finalmente Miro può alzare le coppe che ha sempre visto alzare agli altri.

La carta di identità però parla chiaro, un paio di stagioni da protagonista e poi in panca a guardare i giovani prendersi ciò per cui lui aveva sudato in anni di gavetta. Un battito di ciglia ed è già ora di pensare alla pensione: America, Qatar… no Lazio. Ai grattacieli e ai petrodollari Miro preferisce Formello, invece che strappare un contratto ai limiti della moralità a un magnate del New Jersey o a uno sceicco arabo, Miro cede alle avances di Claudio Lotito.

A 33 anni passa dal Bayern alla Lazio di Lotito, in Italia, nel 2011. Le cose sono due: o gli fa schifo la vita o è Miro che ama troppo il calcio per giocare nell’Ahmed Bin Ali Stadium di Doha o nello Sheikh Khalifa Stadium di Al Ain, nell’Emirato di Abu Dhabi, davanti a un pubblico formato essenzialmente da gestori di fondi di investimento. Io propendo per la seconda: la verità è che a Miro piace ancora il vero calcio, a lui piace troppo cenare leggero, ama andare a letto alle 10 di sera, lasciando a metà quell’episodio di Squadra Speciale Cobra 11 che stava guardando, prova un gusto indescrivibile a presentarsi alle 8:30 al centro di allenamento a bordo di una monovolume poco appariscente e gettare il peso dei sensi di colpa su quei ragazzini arroganti che con una Ferrari California sotto al culo giocano a fare gli arrivati.

Così a 30 e passa anni, quando altri al suo posto cominciano pensare a quale sia il ferro migliore per mandare una pallina in buca da 60 metri, Miro si rimette a sudare, a sostenere carichi pesanti a fine luglio per presentarsi in forma al preliminare di Europa League contro i macedoni del Rabotnicki. E la cosa lo fa godere tantissimo.

Da lì saranno cinque stagioni indimenticabili per lui e per i suoi nuovi tifosi. Ci saranno alti, vedi la Coppa Italia all’Olimpico e bassi, vedi l’ultima stagione. In ogni caso sono emozioni che difficilmente avrebbe potuto trovare sulle spiagge di Miami, ricordi che continueranno a vivere nei bar e nei vicoli romani, come quella volta che ne mise cinque al Bologna, 27 anni dopo l’ultima cinquina in Serie A. Non male per uno che le soddisfazioni più grandi se le è tolte dopo i 30 anni, uno che fino a 22 anni giocava tra i dilettanti. 

La maglia celebrativa con cui la Lazio saluterà il suo Miro.
Né troppo tecnico, né eccessivamente potente, Miro è la rappresentazione in scala 1:1 della mediocrità. Serietà e impegno però l'hanno portato a raggiungere e superare tanti ragazzi più giovani e dotati di lui che respiravano già le serate europee quiando lui affinava il suo senso del goal su anonimi campi della provincia renana. Sarà ricordato come il miglior marcatore nella storia dei Mondiali, l'erede di Gerd Müller, quello che l’altro giorno ha scritto il suo nome nella Hall of Fame FIFA e che nonostante tutto ha scelto di finire la carriera in un paese dove allo stadio si entra dai tornelli e dove si gioca a porte chiuse minimo una volta all’anno. L’unico campione del mondo a scegliere la Serie A.

Danke Miro.

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