I giorni di Cesare
A quasi tre mesi dalla scomparsa di Cesare Maldini e a vent'anni esatti dall'ultima vittoria della sua Under 21, ho deciso di fare un po' d'ordine tra ricordi sparsi e impressioni lasciatemi da quel periodo. Ne è uscito questo lungo racconto ispirato alla grande epopea di Cesare e della sua Under 21.
...si diceva il calcio va avanti, diventa sempre più scientifico,
sempre più frenetico, eppure con il calcio vecchio, tradizionale,
semplice di Maldini si continua a vincere. In realtà proprio le imprese
di questa squadra, tre volte finalista, tre volte vincitrice, dimostrano
che nello sport il confine tra vecchio e nuovo è molto, ma molto
opinabile. Vai Civoli.
Carlo Nesti 31/5/1996
Sono gli
ultimi giorni di maggio, le giornate sono sensibilmente più lunghe e
sotto i pantaloni, fattisi ormai corti, cominciano a fare capolino le
prime sbucciature. Si respira un’aria strana e non sono solo i pollini
che minacciano la sopravvivenza dei tuoi compagni di classe allergici
alle graminacee. Dalla finestra dell’aula l’azzurro del cielo appare più
luminoso del solito e mentre la maestra cerca di dare una parvenza di
utilità a quegli ultimi giorni di scuola, nella tua testa di ragazzo
prebuscente cominciano a scorrere immagini di partite interminabili
giocate con gli amici sotto il sole cocente, di magliette intrise di
sudore misto a sangue, avverti distintamente il rumore del
pallone rotolare sul cemento abraso del campetto del paese, le madonne
che piovono copiose sul malcapitato a cui è toccato il poco ambito ruolo
di portiere, mentre più in là, in sottofondo, si ode già lo sgasare dei
motorini dei più grandi, che da qualche tempo al pallone sembrano
anteporre nuove priorità quali figa e consumo di droghe leggere.
Erano
giorni di fine maggio come quelli in cui sto scrivendo oggi, quelli in
cui potevi annegare le tribolazioni della tua vita di decenne nella
flemma delle telecronache di Carlo Nesti, che con il suo inconfondibile
timbro di voce fu la colonna sonora dell'Under 21 di quegli anni, dell’epopea
di Cesare Maldini.
«Il tiiiro... e il gooool»
, potevi trovarti su una qualunque delle tre reti RAI, ma se tornando a casa in un tardo
pomeriggio di maggio sentivi quelle poche parole non potevi sbagliare,
in campo c’era l’Under e di lì a poco avrebbe vinto gli Europei ai rigori, al golden goal, in dieci, in nove, con ogni mezzo necessario, ma alla fine ci avrebbe fatto credere che per l'Italia vincere era possibile, almeno a livello giovanile.
1992
Facce da schiaffi
Un’epopea
si è detto, ma con i contorni della favola che come insegna Vladimir
Propp, prevede sempre un evento sconvolgente in grado di rompere la
situazione di equilibrio iniziale. Quell’evento sconvolgente, capace di
scuotere tutto l’ambiente “azzurro” fin su nelle alte sfere della
Federazione, ha luogo il 5 giugno 1991.
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16 gennaio 1991: Cesarone alle prese con i primi problemi. |
Sarebbe bello
pensare che dalle ceneri di quel 5 giugno i nostri ragazzi abbiano
trovato la forza di riemergere e di dimostrare ciò che nessuno credeva a
loro possibile. Non sappiamo se fu quello o semplicemente una fortunata
coincidenza di variabili tattiche, ma una settimana dopo, a Padova, la
nostra Under gioca alla pari con l’URSS, gran favorita per la vittoria
finale e ancora ignara di essere a una manciata di partite dalla fine
della sua storia. Una partita equilibrata, al termine della quale la
difesa sovietica si arrende a un colpo di testa di Renato Buso. Un goal
che forse fu più di un goal ma il segno che una generazione di ragazzi
che faticavano ad affermarsi nei rispettivi club stava aspettando.
Norvegia e URSS finiranno per togliersi punti a vicenda fino allo
scontro diretto con gli scandinavi che qualificherà l’Italia e
vendicherà il bruciante 6-0 dell’andata.
La favola entra nel
vivo con la fase finale. Allora si giocava semplicemente un tabellone da
otto squadre con partite di andata e ritorno, praticamente una Coppa
UEFA. Cecoslovacchia e Danimarca sono una formalità prima della finale
contro la Svezia. Il giorno della sfida di andata, gli statuari svedesi
ricordano da vicino i giganti norvegesi di un anno prima e in certi
momenti Ferrara dà l’impressione di potersi trasformare in una nuova
Stavanger. All’intervallo, con il punteggio fermo sullo 0-0, un
giornalista incalza Matarrese che si improvvisa professore di psicologia
sportiva e mette il carico:
«Presidente, delle sculacciate per il primo tempo?»
«Sì, sì, non mi piace.»
A tal proposito, l’allora portiere Francesco Antonioli dirà che
proprio il clima di scetticismo che circondava la squadra fu l’elemento
che compattò il gruppo, la chiave di un secondo tempo arrembante che a
20 minuti dalla fine vede Buso avere la meglio su due stangoni svedesi e
infilare di testa il vantaggio “azzurro”. Qualche minuto dopo Gianluca Sordo
appoggia comodamente un pallone servitogli a porta vuota ancora da Buso:
2-0. Pochi giorni dopo, nella partita di ritorno, il goal di Pascal
Simpson non basterà agli svedesi per rovinare il lieto fine alla favola
di Cesare e dei suoi ragazzi. La generazione “da schiaffi” che giusto un
anno prima veniva spernacchiata al suo rientro dalla Norvegia, riuscì
ad arrivare dove nessuno era riuscito ad arrivare prima, nonostante il
Baggio non fosse più Roberto ma Dino e che al posto della coppia
Vialli-Mancini ci fossero Renato Buso e Bobby Muzzi. Una generazione che
fece dell’Under 21 il proprio club e che in Cesare Maldini trovò la
fiducia che molti dei suoi elementi non riusciranno più a trovare
altrove.
1994
Golden Goal VS Golden Generation
Dopo le Olimpiadi in Spagna,
terminate ai quarti contri i padroni di casa, nel settembre 1992
comincia un nuovo biennio. Al comando c’è ancora Cesare Maldini che si è
guardagnato sul campo la riconferma del presidente Matarrese.
L’incantesimo iniziato un anno e mezzo prima a Padova e interrottosi una notte d’agosto a Barcellona, riprende senza intoppi fino alla sfida con il Portogallo.
Quella che per un intero biennio sarà la grande rivale della nostra Under è forse la più talentuosa generazione di calciatori che il Portogallo abbia mai avuto: terza ai Mondiali Under 17 nel 1987, vicecampione d’Europa di categoria nel 1988, campione del mondo Under 20 nel 1991, i Rui Costa, i Figo, i João Pinto non a caso sono ricordati ancora oggi come la Geração de Ouro e a Braga lo dimostrano, svegliando dall’incantesimo i nostri con due sberle.
La "Generazione d'oro". |
Quella
che si gioca nella regione della Linguadoca nella primavera del 1994 è la prima
vera fase finale per come la intendiamo oggi. È una “final 4″ con
semifinali e finale oltre a una novità all’ultimissima moda introdotta
in via sperimentale ai Mondiali Under 20 giocati in Australia l’anno
prima. Praticamente in caso di supplementari, se una delle due squadre
segna finisce tutto, così nel bel mezzo della partita. Quelli della FIFA
lo chiamano golden goal ma in America, dove esiste da anni, con più pathos lo chiamano sudden death,
la morte improvvisa che è riuscita a rendere più avvincenti i playoff
di hockey e che Blatter si augura scoraggi le difese dal chiudersi a
catenaccio aspettando i rigori.
In
semifinale c’è la Francia padrona di casa, che con i portoghesi è la
favorita della vigilia. Come nell’edizione precedente, i nostri pagano
l’ineseprienza sui grandi palcoscenici, a parte Panucci, campione
d’Europa col Milan e già in odore di Nazionale maggiore, gli altri si
arrangiano in squadre di non primissima fascia. C’è Fabio Cannavaro del
Napoli, di cui si dice un gran bene, c’è Paolo Negro che si sta
ritagliando il suo spazio alla Lazio e c’è un gigante di quasi due metri
in porta, da poco passato dalla tribuna del Milan alla promozione in A
con la Fiorentina, il suo nome è Francesco Toldo. Il già simpaticissimo
Raymond Domenech può invece contare su alcuni giovani già da tempo sui
taccuini dei talent scout europei, come i girondini Zidane e Dugarry,
Lilian Thuram del Monaco, l’attaccante Pascal Nouma, che qualcuno si
azzarda a paragonare a George Weah e soprattutto Claude Makelele, che è
già un pezzo pregiato di quel Nantes che un anno più tardi vincerà il
campionato francese.
Con l’Italia in dieci per l’espulsione di Delli Carri, lo spettro dei supplementari si materializza dopo 90 minuti bloccati. Nei 30 successivi però il tanto atteso golden goal non arriva. Si va così ai cari vecchi rigori. Il terzo tiro dei francesi spetta a Makelele. Toldo, che aveva studiato il suo avversario, ammetterà che i rigori erano un’incognita dato che all’epoca non era così facile reperire materiale su un giocatore famoso più che altro a livello giovanile. Sarà stato un eccesso di sicurezza di Makelele o il già spiccato talento di "para-rigori" di Toldo, ma il piatto centrale del francese è preda facile del nostro portiere. A decidere è Benny Carbone che trasforma l’ultimo rigore e manda l’Italia in finale per la seconda volta consecutiva.
Con l’Italia in dieci per l’espulsione di Delli Carri, lo spettro dei supplementari si materializza dopo 90 minuti bloccati. Nei 30 successivi però il tanto atteso golden goal non arriva. Si va così ai cari vecchi rigori. Il terzo tiro dei francesi spetta a Makelele. Toldo, che aveva studiato il suo avversario, ammetterà che i rigori erano un’incognita dato che all’epoca non era così facile reperire materiale su un giocatore famoso più che altro a livello giovanile. Sarà stato un eccesso di sicurezza di Makelele o il già spiccato talento di "para-rigori" di Toldo, ma il piatto centrale del francese è preda facile del nostro portiere. A decidere è Benny Carbone che trasforma l’ultimo rigore e manda l’Italia in finale per la seconda volta consecutiva.
Il 20 aprile a
Montpellier si consuma la resa dei conti di una rivalità durata un
biennio tra Italia e Portogallo. Come la semifinale, è una partita
contratta, dove l’Italia si conferma l’”appassionante cenerentola” che
Franco Arturi descrive in quei giorni sulla Gazzetta dello Sport.
Un’Italia che soffre ma compensa i suoi limiti con il carattere. Cesare
Maldini ha dovuto inoltre rinunciare a Vieri, fermato da un infortunio.
Al suo posto c’è Filippo Inzaghi, quanto di più lontano possa esserci
dall’ariete australiano. In panchina invece c’è un ragazzone bergamasco
che mugugna perché è stufo di vedere le partite da bordo campo. Si
chiama Pierluigi Orlandini e non ha la minima idea dell’appuntamento con
la storia che lo attende alla fine di quel pomeriggio. Nel frattempo le
caviglie di João Pinto fanno la conoscenza di Cannavaro e Toni, giovane
attaccante del Braga, fa tremare la traversa di Toldo. Anche qui finisce
0-0. Carlo Nesti ci ricorda con puntualità che con il nuovo regolamento
chi segna per primo ai supplementari vince. La partita riprende
stancamente, ormai avviata verso un annunciato epilogo dal dischetto.
Sulla fascia destra però si agita da qualche minuto quel corpulento
ragazzo che dalla panchina stringeva i pugni nelle tasche della tuta.
Maldini ha infatti tolto l’inconcludente Inzaghi e mandato in campo
proprio Orlandini. Al settimo minuto Cherubini intercetta una palla
buttata via da Abel Xavier, sì, proprio lui, e riesce a servire
Orlandini che si accentra, punta Paulo Torres e prima che il difensore
possa avvicinarsi, molla un destro sotto l’incrocio che non lascia
scampo al portiere. L’Italia è campione d’Europa per la seconda volta
consecutiva.

1996
Comunque vada sarà un successo
Per quanto riguarda la vittoria del 1996 i miei ricordi si fanno
meno
nebulosi e non ho bisogno di troppe ricerche su Google per ricordare il
diciottenne Buffon fare da riserva ad Angelo Pagotto in porta, in difesa
il giovane veterano Panucci che vince il secondo Europeo Under 21, la
certezza Cannavaro e il promettente Salvatore Fresi, su cui l’Inter
spera di
costruire parte del prorprio avvenire. Aggiungiamoci un Nesta, che poche
settimane dopo si unirà alla sfortunata spedizione di Sacchi, e abbiamo un
reparto che molte nazionali maggiori si sognano tuttora. A centrocampo il solido Tommasi, con i miei idoli Fabio Pecchia e
Raffaele Ametrano a supportare l’estro di Massimo Brambilla. In attacco
Francesco Totti, Nick Amoruso, Marco Delvecchio e l’ultimo gioiellino
del vivaio Atalanta Domenico Morfeo.
Quella che nella
primavera del 1996 prende la strada di Barcellona per giocarsi il terzo
titolo Europeo consecutivo sembra una Nazionale degna di quelle che
Azeglio Vicini lasciò in eredità a Cesare Maldini. L’ultimo ostacolo
prima della fase finale è ancora una volta il Portogallo. La
“Generazione d’oro” sta gradualmente confluendo tra i ranghi della
Nazionale maggiore ma il quarto di finale è più duro del previsto, tanto
che ci presentiamo nella partita di ritorno sotto di uno. A tirarci
fuori dai guai è ancora una volta Bobo Vieri, non a caso scelto da Moggi
per prendere il posto del partente Ravanelli nella Juve campione
d’Europa. Un autogoal di Emilio Peixe ci regala infine il biglietto per
Barcellona.
La semifinale è con la Francia che oltre al solito
Makelele schiera alcuni giovani che nei quattro anni successivi si
riprenderanno tutte le rivincite possibili e con gli interessi, ma
questa è un’altra storia e il 28 maggio 1996 basta Totti che ribatte una respinta di Letizi dopo una percussione di Brambilla per mandare a casa i francesi
Due
giorni dopo al Montjuic c’è la favoritissima Spagna di Clemente pronta a
farci la festa. I campioni in carica siamo noi, i piedi buoni non ci
mancano ma ancora un volta ci presentiamo a quella che è ha tutta l’aria
di una riedizione della sfortunata finale
del 1986, come la vittima sacrificale di turno. Nella Spagna giocano
due ragazzi che effettivamente paiono di un’altra categoria. Raul a
neanche 19 anni gioca già in pianta stabile nel Real Madrid e il
blaugrana De La Peña in quel periodo sembra un fenomeno destinato a
palcoscenici ben più importanti del Montjuic dove, ironia della sorte,
diventerà l‘idolo dei pericos dell’Espanyol. Ci sono poi due ragazzi non ancora così in vista ma di cui si sentirà presto parlare come “El Moro” Morientes e Gaizka Mendieta.
Spagna-Italia
prende subito una piega inaspettata: Ametrano calcia una punizione che
passa sopra la testa di Totti ma trova il piede dello spagnolo Idiakez
che devia e manda la palla alle spalle del portiere. Niente di meglio
che andare al riposo in vantaggio, avrà pensato Cesare Maldini un minuto
prima che Raul disegnasse un arcobaleno che dal limite dell’area va ad
illuminare la notte di Barcellona per poi spegnersi alle spalle di
Pagotto. Sospinti da 34.000 spettatori, gli uomini di Clemente
cingono d’assedio il fortino “azzurro”, ridotto in dieci uomini per
l’espulsione di Amoruso nel secondo tempo e addirittura in nove dopo la
seconda ammonizione di Ametrano nei supplementari. Volente o nolente,
Cesare Maldini è ancora una volta costretto al ruolo di “catenacciaro”
difensivista che non è altro prima dell’epilogo che, come dieci anni
prima, è dagli 11 metri.
Un Raul diciottenne ignaro di cosa stia per accadere. |
Nei lunghissimi momenti che
precedono il primo turno di battuta c’è però l’aria dell’impresa per
aver protratto una partita del genere fino a quel punto. Senza più
attaccanti, Maldini manda Panucci a battere il primo rigore, che
sbaglia. Un destino già scritto sembra sul punto di
manifestarsi e il solito Carlo Nesti si affretta a dichiarare che comunque
vada sarà un successo. Marco Civoli, che tra un rigore e l’altro
chiacchiera al microfono con Fabio Galante, si lascia andare:
«I ragazzi hanno già vinto la coppa, l’hanno conquistata sul campo». In
quel momento parte dal dischetto Raul che, come poco prima di lui De La
Peña, sbaglia incredibilmente. Morfeo è l’unico giocatore offensivo
rimastoci ed è lui che segna il rigore decisivo e regala a Cesarone la
gloria eterna.
Dieci anni prima, quando Cesare
Maldini si
siede per la prima volta sulla panchina dell’Under 21, sembra arrivato
già fuori tempo massimo: un dinosauro che continua a muoversi
placidamente con i suoi modi giurassici, ignaro
dell‘asteroide “sacchiano” che sta per colpire il pianeta Terra e che ne
modificherà per sempre l’ecosistema calcistico. Al termine di quei
dieci anni di successi Cesare invece è ancora lì, come uno squalo
sopravvissuto chissà come all’evoluzione, alla comparsa dei mammiferi,
alla difesa alta e alle transizioni attive sulla tre quarti campo. È
lì, al centro dello stadio Montjuic a ricevere i complimenti del suo
primo detratorre, quel Matarrese che pochi mesi dopo scaricherà il guru
di Fusignano per fare posto proprio a Cesarone, quello che lui chiamava
con disprezzo “catenacciaro” non sapendo di fargli il più gradito dei
complimenti.
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