Caro Maestro/II
L'inizio della storia d'amore con la Celeste, la Coppa America, Italia 90, una notte quasi magica all'Olimpico. Tutto nella seconda puntata del nostro sceneggiato storico con Dustin Hoffman nella parte del Maestro Tabarez.
Il primo bacio
Il primo bacio
Mentre da noi si chiudono gli ultimi ombrelloni, l'estate australe
del 1988 comincia a scaldare la baia di Montevideo. Oscar Washington
ha 41 anni, è giovane, colto ed elegante. Ha già una Coppa
Libertadores in bacheca e si appresta a condurre ai successivi Mondiali la Nazionale che da calciatore aveva potuto osservare solo da spettatore. Prima però c’è una Coppa
America da preparare e la pesante eredità lasciata da Roberto
Fleitas e dal discusso Omar Borras, vincitori delle ultime due
edizioni, da non far rimpiangere. Il primo bacio della lunga storia
d’amore tra El Maestro e la Celeste ha luogo il 27 settembre
1988, allo Stadio Defensores del Chaco, ad Asunción, Paraguay. Si
gioca la Copa Boquerón, uno di quegli strani tornei con squadre
invitate a caso in cui non era insolito imbattersi fino a metà degli
Novanta e che oggi un po’ ci mancano. Di fronte al nuovo Uruguay di
Tabarez c’è l’Ecuador, che in mezzo al campo schiera già un
giovane Alex Aguinaga. La partita si mette bene con il goal di
Gustavo Dalto. A un quarto d’ora dalla fine Jimmy Izquierdo
pareggia. I rigori sembrano sempre più probabili quando a 5 minuti
dalla fine José Oscar Herrera regala la vittoria ai suoi. Una
vittoria tutta di Tabarez, firmata da Dalto, suo giocatore ai tempi
del Danubio, e da “Pepe” Herrera, omonimo del Profe e
figlio prediletto al Peñarol prima e al Cagliari poi. Due giorni
dopo sullo stesso campo c’è il Paraguay che alla fine del primo
tempo segna tre goal in quattro minuti: risultato finale 3-1. El
Maestro ha già la testa in Brasile.
La Coppa America
Il Brasile ospita nell’estate 1989 una Coppa America rinnovata,
che abbandona la vecchia formula che qualificava la squadra campione
in carica direttamente alle semifinali, sostituendola con una
egualmente assurda a doppio girone con gruppi da cinque squadre,
costrette a giocare ogni due giorni per accedere a un altro girone
all’italiana da quattro squadre. Tabarez lancia qualche giovane
come i ventenni Ruben Da Silva e Ruben Pereira, entrambi Ruben ed
entrambi passati senza troppa fortuna in Italia. L’ossatura della
squadra rimane però quella consolidatasi con la gestione Borras,
con El Principe Francescoli a illuminare, assistito da
elementi di esperienza come Ruben Paz e Antonio Alzamendi. Più che
rivoluzionare in questa fase Tabarez si preoccupa soprattutto di
ricucire, riguadagnando alla causa uomini importanti come Ruben Sosa,
che il Mondiale in Messico l'aveva visto in televisione, e Hugo De
Leon, roccioso centrale difensivo inviso al precedente allenatore
per le sue simpatie sinistrorse.
Tabarez è quanto di più lontano ci sia dal suo predecessore, anche fisicamente. I completi e il trenchcoat alla
Humphrey Bogart del Maestro sono ben diversi dalle tute
attillate del pingue Borras. La differenza oltre che di stile però è
soprattutto ideologica. Se il vulcanico Borras era infatti vissuto da
una parte degli uruguayani come l'ultimo, indigesto residuo della
dittatura miliare cominciata nel 1973 e terminata solo nel 1985, la
calma saggia e serafica di Tabarez appare come una ventata di novità
e speranza in un Paese che ha riscoperto da poco la democrazia e dove
dopo 12 anni di clandestinità è tornato a farsi sentire il Frente
Amplio, la storica coalizione di sinistra in cui milita
tuttora l'ex presidente José Mujica. Moderato ma dichiaratamente di
sinistra, amante dello scrittore dissidente Eduardo
Galeano, a chi gli fa visita Tabarez mostra con orgoglio la grande scritta che campeggia all'entrata della sua residenza di Montevideo, uno dei più celebri aforismi di Ernesto “Che” Guevara: «Hay
que endurecerse sin perder jamás la ternura»,
che come i poster nelle librerie Feltrinelli ci hanno insegnato
significa: «Bisogna
essere duri senza mai perdere la tenerezza.»
Contro il Cile è di nuovo 3-0
e il ritorno in campo con goal di Francescoli rimette definitivamente
in corsa l’Uruguay per la qualificazione. Nella partita finale del
girone Tabarez ha di fronte l’Argentina di Bilardo, campione del
mondo ma affetta dalla sua cronica “Maradona-dipendenza”.
L’ingresso di Caniggia
per Burruchaga non provoca sconvolgimenti, fino al 69′ quando...
indovinate chi? Diego, ovviamente, pesca il biondo attaccante allora
in forza al Verona, colpevolmente lasciato libero di calciare in modo
tutt’altro che irresistibile. Il portiere Zeoli fa il resto.
L’Argentina vince e passa al secondo turno, l’Uruguay perde e
Tabarez accende un cero perché il Cile batta l’Ecuador senza
troppi goal nell'ultima gara del girone. La Roja farà il suo
dovere e l’Uruguay passerà per la differenza reti. El Maestro sa di avere un debito con la
fortuna.
È la volta del secondo turno, il girone finale che decide tutto.
Un po’ per caso l’Uruguay si trova per le mani l'occasione di
ricominciare da capo un torneo completamente nuovo, a partire dalle
condizioni ambientali che passano dai 12.000 spettatori di media di
Goiania ai 100.000 del Maracanà. La prima occasione di Tabarez per
onorare il suo debito con la fortuna è contro il Paraguay, squadra
tosta, che è riuscita a passare come prima del girone davanti al
Brasile padrone di casa. Ora fate un respiro, non vi chiedo di
guardarlo integralmente, io stesso ho dovuto tagliare la dose per la
troppa purezza, quello che vi consiglio però è di passare qualche
minuto in silenzio, a capo scoperto, in beata contemplazione della
fulgida manifestazione di nostalgia che vado ora a linkarvi.
Avete
seguito il mio consiglio? Mi auguro di sì, perché se siete capitati
su questo blog, se magari siete pure recidivi e non è neanche la
prima volta che vi ci addentrate, questa è la medicina buona di cui
avete bisogno. La medicina che distillo per voi che come il sottoscritto siete persone orribili, tossici del cazzo che si bagnano come delle
tredicenni a un concerto di Fedez a sentire il giovane Massimo
Marianella che su Telecapodistria parla di Chilavert che rifiuta la
Nazionale perché non vuole fare la riserva, mentre Fabio Capello
elogia le doti fisiche di Gustavo Neffa, l'attaccante paraguayano ex Cremonese a cui «giassò
che sai giassai che» il nostro Neffa deve il suo nome d'arte.
Il dovere di cronaca mi impone di darmi una ripulita e tornare
alle vicende di campo di Oscar Washington e del suo Uruguay,
che dopo qualche minuto di affanno, piano piano, prende piede come
poche volte si era visto. Francescoli sembra in giornata sì, Sosa
inizia a ispirare compagni non sempre all’altezza, Ostolaza e
Perdomo garantiscono il fabbisogno quotidiano di garra charrúa.
Intanto il possesso palla del Paraguay si impantana a metà campo.
Intorno alla mezz’ora un lancio di Perdomo, a
cui Boskov avrebbe permesso al massimo di giocare in giardino con il cane, pesca Ruben Sosa che sembra non aspettare altro. La
folle uscita del Gato Fernandez non fa che rendergli più
facile il compito: palla in mezzo per l’accorrente Francescoli che
si tuffa a porta vuota. L’1-0 non fa che favorire l’inerzia della
partita, con il Paraguay che fa circolare a lungo il pallone senza
creare grossi pericoli e anzi, si espone al gioco degli avversari,
basato sulla velocità degli esterni e sul contropiede: d’altra
parte si sa, l’Uruguay è la squadra sudamericana più europea. La
"Celeste" inizia a subire e con il risultato ancora in bilico Tabarez
si prende la responsabilità di sostituire un Francescoli che nel
secondo tempo è andato spegnendosi. La pressione del Paraguay non dà
tregua a Zeoli che però è in giornata straordinaria. L’asino che
solo qualche giorno prima aveva regalato la vittoria all’Argentina,
la riserva che si trovava lì solo perché il titolare Alvez si era
rotto una gamba giocando a basket, ha lasciato il posto a un felino
capace di tre autentici miracoli. La partita verso la fine si fa
divertente, con il Paraguay che si riversa in massa nell’area
uruguayana e lascia spazi enormi per le ripartenze dell’incontenibile
Sosa. È proprio il Principito a servire Alzamendi per il 2-0
che di fatto chiude il match. C’è giusto il tempo per un
contropiede d’altri tempi, con l’Uruguay in superiorità numerica
di 5 contro 2 e Ruben Paz che batte il Gato Fernandez per la
terza volta.
Se osserviamo la parabola di Tabarez alla guida della sua
Nazionale possiamo notare tre picchi i quali, se si esclude la Coppa
America del 1995, corrispondono grosso modo ai momenti di massimo
splendore del calcio uruguayano degli ultimi trent’anni. Il primo
di questi picchi, quello che fa entrare El Maestro nel cuore
dei suoi connazionali, cade la sera del 14 luglio 1989. Il Maracanà
ospita la riedizione
a parti invertite del match di pochi giorni prima tra un Uruguay
rivitalizzato dalla vittoria con il Paraguay e un’Argentina uscita
asfalta dal Brasile nel Clásico
di due giorni prima. Sul finire del primo tempo Paz e Francescoli si
destreggiano con passaggi nello stretto sull’out di
sinistra, la palla finisce tra i piedi del terzino Dominguez che
lancia al limite dell’area in direzione di Alzamendi. A questo
punto succede l’imponderabile con Sensini che anticipa agevolmente
Alzamendi e poi pensa bene di appoggiare indietro verso... Ruben Sosa
che dribbla Pumpido e deposita in rete. Anche da questi dettagli si
percepisce l’incredibile stato di grazia nel quale si trova Sosa e
che raggiunge il culmine qualche minuto dopo. Prima però c’è un
lampo di
Maradona che, impossibilitato a fare altro, trasforma un’innocua
palla che ballonzola a centrocampo in un missile Saturn V che si
stampa sulla traversa. Un breve interludio nello show di Ruben Sosa
che nel secondo tempo infila in contropiede la difesa argentina e
chiude la partita. Rivedendolo anche oggi, quel goal ci parla di una
superiorità schiacciante dell’attaccante della Lazio, che con una
finta di corpo fa fuori i suoi marcatori prima di bruciarli con
un’accelerazione inarrestabile. Nestor Clausen, in un ultimo
disperato tentativo di toccare la palla, viene addirittura sbalzato
via dalla furia del Principito. L’acerrimo rivale è stato
sconfitto, le critiche mosse a Tabarez in apertura di torneo, che lo
accusavano di aver sbagliato preparazione, dissolte. Con il senno di
poi la notte di Rio è il momento più alto della prima gestione
Tabarez.
Nonostante la formula del torneo preveda un girone all’italiana
in luogo di una finale secca, l’inaspettata vittoria dell’Uruguay
contro l’Argentina regala ai 150.000 del Maracanà la tensione di
una finale vera e propria. Uruguay e Brasile sono entrambe a 4 punti,
con i padroni di casa che in virtù della migliore differenza reti
possono contare su due risultati su tre... esattamente come 39 anni
prima. Il Maracanzo non sembra aver insegnato niente ai
brasiliani. La partita
prende la piega consueta, con Tabarez che invita i suoi ad aspettare
nella propria metà campo in attesa del varco giusto per colpire in
contropiede. Il Brasile però non è il Paraguay e quel che è peggio
l’Uruguay in campo non è quello di due giorni prima.
Francescoli si incarta in dribbling velleitari, Ruben Sosa è
praticamente inesistente e così diventa solo una questione di tempo
prima che un triangolo chiuso da Mazinho e Bebeto si trasformi in un
cross per Romario che indisturbato segna il goal della vittoria. Il
sogno si infrange proprio quando l’inatteso traguardo del terzo
titolo consecutivo sembrava a portata di mano. C’è delusione tra i
charrúas ma anche la convinzione che Tabarez sia l’uomo
giusto per guidare l’imminente campagna italiana.
Italia 90
Passa poco più di un mese e la posta in palio è già altissima.
A Lima l’Uruguay vicecampione continentale è già in campo per la
prima partita di qualificazione ai Mondiali. Niente a che vedere con
l’interminabile girone unico a cui siamo abituati oggi, all’epoca
ci si giocava tutto in un mese di passione in tre gironi da tre
squadre. Non c’erano scappatoie, o vincevi il girone o stavi a
casa. L’inizio è incoraggiante: un 2-0
con un Perù che si preannuncia la cenerentola del gruppo. Il vero
ostacolo si presenta però una settimana dopo e ha l’aria rarefatta
dei 3600 metri di altitudine dello Stadio Hernando Siles di La Paz,
dove la Bolivia è solita surclassare gli avversari sul piano
atletico. Se aggiungiamo che quella Bolivia era anche una buona
squadra, con alcuni degli elementi che qualche anno più tardi
porteranno alla storica partecipazione a USA 94, non è così
inspiegabile la sbandata degli uomini di Tabarez, che perdono 2-1
e sono costretti a puntare tutto sulla partita
di ritorno. La Bolivia è a punteggio pieno e la pressione è
tutta sull’Uruguay.
Alla mezz’ora uno che mi sembra essere Ostolaza fa partire un
lancio che scavalca la difesa boliviana. Lì appostato c’è Ruben
Sosa che con freddezza porta in vantaggio i suoi. Appena otto minuti
dopo Francescoli segna il 2-0 e fa esplodere il Centenario. Contro il
Perù, nell’ultima partita del girone l’Uruguay ha a disposizione
solo un risultato. Fortunatamente la stella di Sosa, che in Coppa
America si era eclissata proprio nel momento della verità, brilla
più splendente che mai e regala a Tabarez un altro successo sul filo
di lana.
Sei mesi di esperimenti consegnano al Maestro una
squadra che alla vigilia dei Mondiali scopre di non potersi
discostare troppo dall’assetto trovato l’estate precedente in
Coppa America. Persino Perdomo, incappato in una stagione disastrosa
al Genoa, in mezzo al centrocampo di Tabarez trova la sua ragion
d’essere come schermo davanti alla difesa. La nota più positiva è
senza dubbio l’esplosione di Daniel Fonseca, attaccante del
Nacional che si guadagna un posto in pianta stabile nel gruppo, dove
è tornato anche Fernando Alvez che si è ripreso il posto tra i pali
soffiatogli prima da Zeoli e poi dal baffuto Eduardo Pereira.
Nell’estenuante ritiro di quasi due mesi voluto da El Maestro
e culminato con l’arrivo al centro sportivo di Veronello, non
mancano aneddoti per i palati nostalgici, come il 4-1 che l’Uruguay
infligge al Padova, che schiera tra gli altri Benarrivo, Di Livio,
Pippo Maniero e Giancarlo Camolese, oppure il doppio confronto
amichevole con il Chievo, allora anonima squadra di C1, che nella
prima partita fa giocare i portieri dell’Uruguay!
La “rivoluzione tranquilla” che Tabarez pazientemente
orchestra da due anni nel tentativo di cambiare
l’immagine del calcio uruguayano, affrancandolo
dallo stereotipo del gioco sporco, dal luogo comune della garra
quale unica arma a disposizione del piccolo Paese platense per
rivaleggiare con gli ingombranti vicini sudamericani e con gli
squadroni europei, si è vista solo a tratti. In un calderone di
vittorie risicate e passaggi di turno miracolosi ci sono però due
episodi in cui il bel gioco predicato dal Maestro riesce a
manifestarsi, finendo per alimentare ambizioni fin troppo smisurate
da parte dell’opinione pubblica uruguayana. Il pirotecnico 3-3
di Stoccarda contro la Germania futura campione del mondo e la
vittoria a
Wembley sull’Inghilterra arrivano proprio a ridosso dell’esordio
mondiale, regalando l’immagine di una squadra realmente in grado di
competere sul piano tecnico ai più alti livelli. Per le strade di
Montevideo si mormora neanche troppo sommessamente di semifinale,
traguardo che manca dal 1970, i più ottimisti giurano di vedere in
Francescoli e Sosa gli eredi di Andrade e Schiaffino, di Nasazzi e
Varela, gli eroi mitici di un’epoca di cui già allora si sentivano
solo echi lontani. Italia 90 sarà l’ultimo Mondiale in cui il
popolo uruguayano nutrirà
vere ambizioni di vittoria.
Il 13 giugno allo Stadio Friuli di Udine non è più il tempo
delle previsioni, c’è la Spagna
di Luis Suarez da affrontare e 2 punti da prendere. Tabarez manda in
campo i suoi uomini di fiducia, con Ruben Pereira preferito ad
Ostolaza. L’inizio è quello classico dell’Uruguay, chiuso,
attendista, preoccupato di far sfogare gli avversari e di ripartire
in contropiede. Neanche il cartellino giallo d’ordinanza può
mancare, con Perdomo già ammonito dopo 10 minuti di gioco. Ruben
Sosa getta il copione una prima volta quando a metà del primo tempo
parte da dietro, semina tre avversari e al limite dell’area serve
Alzamendi che impegna Zubizzarreta, salvo solo con l’aiuto
della traversa. Il secondo tempo è un monologo “celeste” dove
lentamente si dispiega sul terreno di gioco il verbo di Tabarez.
L’Uruguay è in pieno controllo della partita e chiude la Spagna
nella propria metà campo. Al 70′ Herrera intercetta un pallone
proveniente da calcio d’angolo e la indirizza alla sinistra di
Zubizzarreta. Solo il braccio di Francisco Villarroya riesce a evitare che il pallone raggiunga il fondo della
rete. L’arbitro fischia e indica il dischetto, solo un attimo di
attesa prima che il destino giunga al suo naturale compimento: il
brutto anatroccolo che diventa finalmente cigno e veleggia verso la
gloria. C’era scritto più o meno questo sul pallone che Ruben Sosa
si incarica di tirare, prima di stracciare la pagina del lieto fine e
sparare il rigore in curva. Ancora oggi, quando in un bar o sul taxi
che dall’aeroporto di Montevideo vi porta all’albergo, la
discussione cade sui Mondiali di calcio, non è insolito incontrare
nel vostro interlocutore la delusione ancora viva per quel rigore di
26 anni fa. Per gli uruguayani si tratta della chiave di volta che trasforma un’avventura da vivere con la voglia di stupire in
una marcia faticosa verso il secondo turno. La “rivoluzione
tranquilla” di Tabarez è morta prima di cominciare, o almeno così
sembra.
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13 giugno 1990: una ferita ancora aperta. |
Quando l’Uruguay scende in campo a Verona contro il Belgio
ha il peso del rigore di quattro giorni prima, un punto in meno di
quanto meritato e, a differenza dell’estate precedente, un credito
con la fortuna. È proprio la dea bendata che, in virtù di qualche
insondabile legge di compensazione, altrimenti detta karma, sembra
aver voltato le spalle ai ragazzi di Tabarez. La squadra parte bene
con Francescoli che porta via il pallone a Scifo e si invola verso
l’area avversaria prima di tirare alto. Le belle sensazioni avute
contro la Spagna però vengono spazzate via in una manciata di
minuti. Al 16′ il capitano del Belgio Jan Ceulemans parte da
centrocampo per sviluppare un’azione in velocità che mette in
evidenza tutti i punti deboli della squadra di Tabarez, dall’allegria
in marcatura di Perdomo alla disattenzione di ali e attaccanti, che
sulla sinistra lasciano solo il povero Herrera contro tre avversari.
De Wolf è così libero di crossare per Leo Clijsters che,
dimenticato dalla difesa, non ha difficoltà a colpire di testa: 1-0.
Neanche il tempo di rialzarsi che la stellina Scifo, senza incontrare
la benché minima pressione da parte dei centrocampisti, dalla tre
quarti scaraventa una minella che si infila alla destra di Alvez.
Tramortiti, gli uruguayani cedono ai loro naturali istinti con Sosa
che si becca il giallo per uno sgambetto a Demol e poi va a pressare
Preud’Homme che non aspetta altro per buttarsi a terra e perdere un
po’ di tempo: insomma tutto ciò che Tabarez ha sempre
stigmatizzato. Sempre il Principito si produce in un tuffo
truffaldino che costa l’espulsione a Gerets. L'uomo in più però
serve a poco quando all’inizio del secondo tempo Ceulemans si trova
davanti un’autostrada che porta dritto verso il 3-0. A questo punto
il Belgio si chiude e amministra. L’ingresso di Aguilera al posto
di Alzamendi dà un po’ di vivacità a una squadra che almeno per
numero di tiri in porta qualcosa in più meriterebbe. Il goal di
Bengoechea arriva troppo tardi, il Mondiale dell’Uruguay è già al
bivio decisivo.
Contro la Corea
del Sud non si può sbagliare, una vittoria garantirebbe al
massimo un ripescaggio e anche in caso di passaggio del turno si
andrebbe incontro al proibitivo accoppiamento con l’Italia. In un
grigio pomeriggio friulano non è una semplice partita di calcio ad
andare in scena ma il dramma nazional-popolare di un Paese che ad
ogni tiro, ad ogni azione che pazientemente i piedi di Francescoli,
Paz, De Leon costruiscono, vive la differenza tra tutto e niente, tra
la vita e la morte. Come già dimostrato contro Belgio e Spagna, i
coreani vendono cara la pelle e non si tirano indietro quando c’è
da menare. Gli attaccanti dell’Uruguay invece danno vita al solito,
deprimente spettacolo già visto nelle prime due uscite: una serie
interminabile di tiri, da vicino, da lontano, da calcio piazzato che
finiscono irrimediabilmente fuori o tra le braccia del portiere. Come
è solito fare quando la situazione non si sblocca, Tabarez gioca la
carta Aguilera... ma niente. Al 64′ prova a dare una scossa ai suoi
sostituendo Sosa con l’esordiente Fonseca. Dopo 90 minuti l’Uruguay
è, come si suol dire, sulla scaletta dell’aereo, direzione
Montevideo, vergogna, oblio. In Plaza Independencia c’è già una
croce su cui si leggono chiare le iniziali O.W.T. Fonseca, proprio lo
sbarbato coi denti da coniglio che Tabarez ha mandato in campo
tentando il tutto per tutto, si guadagna una punizione sulla destra
dell’area coreana. El Maestro si gioca due anni di lavoro,
di sforzi per «rinnovare
l’immagine del calcio uruguayano nel mondo»,
in una mischia d’area. Quando il pallone si alza da terra e sorvola
le teste dei giocatori in campo però è come se portasse con sé una
brezza leggera, capace di spazzare via per un momento tutte le
polemiche sorte nelle settimane precedenti. Il mucchio selvaggio
formatosi in mezzo all’area di rigore rimane immobile, quasi ad
accompagnare l’ingresso nella storia di Daniel Fonseca (in
fuorigioco peraltro). La sofferenza di 90 minuti è cancellata in un
istante, l'Uruguay
torna a vincere in un Mondiale dopo vent’anni e per qualche ora
l’aria pesante che da giorni circola nel ritiro di Verona si
dirada. La panchina festeggia, dirigenti e membri dello staff esultano, eppure Tabarez non si scompone, è rigido, sembra a disagio mentre riceve gli abbracci dei suoi collaboratori, quasi presagisse la tempesta che lo aspetta lui e la squadra.
Come detto è un attimo di gioia incontenibile, questione di ore,
poi le nebbie tornano ad addensarsi nella testa di Tabarez. Il CT
uruguayano ha bene in mente le dimensioni della sfida che ha davanti:
incontrare la squadra padrona di casa, la più forte per quello che
si è visto finora, dovendo far fronte ad
un evidente decadimento fisico dei propri giocatori, usciti svuotati
anche dal punto di vista mentale dal match con la Corea.
Dall’ambiente filtrano dichiarazioni di soddisfazione per il
passaggio del turno, quasi fosse quello l’obiettivo stabilito in
partenza... della serie la volpe che non arriva all’uva. Le
parole degli stessi membri dello staff
tradiscono rassegnazione, dal preparatore atletico Esteban Gesto,
l’unico con cui Tabarez abbia mai tradito El Profe, che
ammette candidamente la stanchezza dei giocatori, al cuoco della
spedizione che lamenta come neanche una grigliata di churrasco
riesca a risvegliare il loro appetito. C’è una frase tra le tante
dette nei giorni precedenti la partita con la Corea che però fa
capire quanto Tabarez riponesse fiducia nel gruppo a sua
disposizione, o almeno quanto fingesse di averla: «Se
giochiamo con il collettivo possiamo superare qualsiasi avversario.
Se vogliamo esaltare le individualità, ci faremo battere anche dalla
Corea». Nelle menti, ma
soprattutto nei cuori charrúas
inizia infatti a farsi strada un pensiero proibito, a metà strada
tra la speranza e il training autogeno e che trova fondamento nelle
prestazioni fornite qualche mese prima contro Germania e Inghilterra,
nella partita contro l’Argentina dell’ultima Coppa America, nella
stessa amichevole
giocata un anno prima contro l’Italia. All’indomani della
sofferta vittoria con la Corea è lo stesso Tabarez che carica i suoi
premendo su questo tasto: «Andiamo
alla seconda fase con la consapevolezza di affrontare squadre più
preparate e più potenti. Ma non ci preoccupa. Solo
nelle situazioni limite possiamo mostrare il nostro vero volto».
Gli fa eco pochi giorni dopo Enzo
Francescoli, che ai microfoni RAI ribadisce:
«L’Uruguay gioca meglio
contro le grandi squadre».
Consapevole di dover essere più psicoterapeuta che tecnico, il
Maestro risparmia i fisici provati dei suoi uomini, passando
l’ultimo giorno di preparazione a spiegare schemi sulla lavagna
magnetica e astenendosi da faticosi allenamenti pomeridiani.
Una notte quasi magica
A mezzogiorno del 24 giugno decolla da Villafranca il charter che porta la sgangherata banda di Tabarez a Roma, dove la nostra storia è iniziata. L’opinione pubblica italiana è tranquilla, preoccupata più dall’infortunio di Donadoni e dal dualismo Berti-Ancelotti che da un avversario che ha soffiato all’ultimo minuto il posto di quarta migliore terza alla Scozia. Dall’altra parte invece la recondita speranza in un’impresa ai confini della realtà appare ancora più remota al momento della lettura delle formazioni. Nella partita più importante della sua carriera Tabarez lascia fuori Herrera, Paz e Ruben Sosa! Tra le delusioni maggiori di quel Mondiale, i talenti di Paz e soprattutto di Sosa vengono sacrificati sull’altare dell’efficienza massima che El Maestro chiede ai suoi allievi.
A mezzogiorno del 24 giugno decolla da Villafranca il charter che porta la sgangherata banda di Tabarez a Roma, dove la nostra storia è iniziata. L’opinione pubblica italiana è tranquilla, preoccupata più dall’infortunio di Donadoni e dal dualismo Berti-Ancelotti che da un avversario che ha soffiato all’ultimo minuto il posto di quarta migliore terza alla Scozia. Dall’altra parte invece la recondita speranza in un’impresa ai confini della realtà appare ancora più remota al momento della lettura delle formazioni. Nella partita più importante della sua carriera Tabarez lascia fuori Herrera, Paz e Ruben Sosa! Tra le delusioni maggiori di quel Mondiale, i talenti di Paz e soprattutto di Sosa vengono sacrificati sull’altare dell’efficienza massima che El Maestro chiede ai suoi allievi.
Tempo 20 secondi e l’Italia sembra aver già trovato il modo di
aggirare il fortino eretto da Tabarez, con De Napoli che coglie più
di un avversario fuori posizione al momento di servire Schillaci. Da
una sua sponda per Baggio nasce la prima palla goal che Totò
fallisce al termine di una bella girata. Altro brivido qualche minuto
dopo con De Leon che si perde Schillaci e Dominguez che innesca una
pericolosa carambola davanti al portiere. Baggio poi segna su una
generosa punizione concessa dall’arbitro, peccato non si accorga
che è di seconda.
Il primo tempo sembra non raccontare molto più di questo: un
netto predominio italiano a fronte di un Uruguay rintanato nella
propria metà campo. Quello che forse sfugge ai più però è la
guerra di logoramento che Tabarez ha coscientemente programmato alla
vigilia e che si riverbera negli errori e nei falli commessi dagli
“Azzurri” sul finire di tempo. Tabarez ha messo da parte l’estro
di alcuni dei suoi maggiori talenti in luogo di un più compatto
4-4-2, dove all’“estroverso” Herrera viene preferito il più
coperto Saldanha, l’imprevedibile Sosa ha lasciato il posto
all’altruista Fonseca, più in forma e incline al ripiegamento, e i
piedi buoni di Paz sono stati sostituiti dal fisico di Ruben Pereira.
Uniche sporadiche digressioni dallo spartito del Maestro sono
lo svariare di Francescoli alle spalle delle punte e la velocità di
Pato Aguilera, la cui presenza dal primo minuto fa capire come
il CT intenda servirsi di ripartenze fulminee per stendere il Golia
“azzurro”.
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Totò, Gutierrez e Saldanha in un quadro rinascimentale. |
A fotografare bene la situazione è Sandro Mazzola, seconda voce di Pizzul, che interpreta il malumore del pubblico dell’Olimpico come riflesso della mancata pressione che, dopo il primo quarto d’ora, ci si sarebbe attesi dall’Italia per tutti i 45 minuti di gioco. «È difficile rendersi conto che è l’avversario che non te lo permette», conclude Sandrino. In apertura di secondo tempo la foresta di mangrovie che Tabarez ha piantato nella propria metà campo appare più fitta di prima, inducendo all’errore gli stessi giocatori italiani. Da un lancio sbagliato di De Napoli parte un’azione di Fonseca che dopo aver superato Maldini e Baresi riesce a mettere il pallone in area: «non male questo Fonseca, giocatore ventunenne che interessa al Cagliari» dice Bruno Pizzul dell’attaccante del Nacional, il cui trasferimento era stato già definito una decina di giorni prima. Vicini toglie Berti e butta dentro il pennellone Serena per cercare almeno un punto di riferimento in mezzo alla selva uruguayana. Gli fa eco poco dopo Tabarez, che manda in campo il grande escluso della vigilia, Ruben Sosa, al posto del poco incisivo Aguilera. Al 58′ una punizione ad effetto di De Agostini che ricorda non poco la prodezza di Roberto Carlos contro la Francia, trova un Alvez stoico, che a costo di rompersi braccio e spalla sinistra, salva il risultato.
![]() |
Oh, non sarà Roberto Carlos, ma guarda come gira... |
Con il passare del tempo le squadre si allungano e anche la disciplina difensiva dell’Uruguay a tratti viene meno. Le sponde di Serena dal cuore della retroguardia uruguayana, rendono giocabili palloni che prima sarebbero stati facile preda degli uomini di Tabarez, in costante (ed estenuante) raddoppio sul portatore di palla. Sette minuti dopo, quando la muraglia “celeste” inizia a mostrare le prime crepe, Baggio addomestica un rinvio di Zenga e di prima serve Serena. È nell’incredeibile rapidità di esecuzione del “Codino” che i nostri attaccanti guadagnano il tempo di vantaggio necessario a sorprendere la retroguardia uruguayana che, totalmente disallineata, concede a Serena la profondità per servire Schillaci che di prima intenzione telecomanda un missile a infrarossi che si alza e poi si abbassa al sentire il calore della rete, giusto in tempo per scavalcare il portiere e infilarsi sotto la traversa.
A questo punto il Mondiale dell’Uruguay può dirsi concluso. Costretto a fare la partita, con Sosa ancora lontano parente di quello che solo un anno prima vinceva il titolo di miglior giocatore del Sudamerica e l’irritante leziosità di Francescoli, che non mi stupirei avesse provato il dribbling anche nel tunnel che porta agli spogliatoi, Tabarez vede i suoi piani stravolti. In controtendenza con il luogo comune e con una certa scuola di pensiero che vede nella fallosità una componente necessaria, oltre che tradizionale, del calcio urugayano, la squadra di Tabarez è la meno fallosa della prima fase, con 86 falli subiti e solo 41 commessi. Non un caso per chi conosce El Maestro, che ha letto Galeano e sa bene come il miracolo del Maracanazo, più che della garra, fu prima di tutto frutto di un gioco capace di costringere il Brasile a 21 falli contro gli 11 degli uruguayani. In quella partita contro l’Italia Tabarez fa di necessità virtù, rinunciando ai suoi ambiziosi piani di rinnovamento e rispolverando la vecchia immagine di squadra scorbutica e scaltra che la “Celeste” si è trovata appiccicata addosso con il passare degli anni. All’inizio del secondo tempo l’Uruguay ha già 26 falli al suo attivo e quando Vicini inserisce Vierchowod per Baggio, la speculare contromossa di Tabarez: fuori Ostolaza, dentro Alzamendi a fare il terzo attaccante, è il segnale della resa. El Maestro non ha più carte a propria disposizione e l’ingresso dell’ennesimo attaccante è solo la conferma di come l’impresa finemente programmata e accarezzata per più di un’ora sia ora solo affidata al caso, alla fortuna, al colpo individuale.
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Le Nazionali di Tabarez sono tra le meno fallose nella sanguinosa storia del calcio uruguayano. |
Controvoglia, l’Uruguay mette il muso fuori dalla propria metà campo dove trova un’Italia che ovviamente pensa solo a difendere e ripartire. I tiri da fuori di Perdomo sono frecce spuntate che si infrangono contro un blindato. A sette minuti dalla fine Giannini batte una punizione dalla tre quarti di destra, l’unico italiano in area è Aldo Serena, che sfugge alla marcatura di tre difensori che danno quasi l’impressione di disinteressarsi di lui. A Serena basta sgomitare un po’ con Gutierrez per segnare di testa il 2-0 e festeggiare il più dolce dei compleanni.
Tra gli “olè” che accompagnano il palleggio degli “Azzurri” e il pubblico che abbandona per tempo l’Olimpico finisce l’avventura di Tabarez sulla panchina dell’Uruguay. Il primo, intenso capitolo della storia d’amore tra un austero filosofo che ha deciso di insegnare calcio e una signora non più nel fiore degli anni ma il cui abito celeste non smette di esaltarne l’aristocratica bellezza.
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