Piazza XXIX Giugno
A Milano c'è Corso XXII Marzo, ultima delle cinque storiche giornate di rivolta contro gli austriaci nel 1848. Anche a Bologna si celebra la cacciata degli austriaci di quell'anno con Piazza VIII Agosto. Sempre a Bologna Piazza XX Settembre ricorda la data della presa di Roma nel 1870. A Roma invece c'è una Via XXIV Maggio, data dell'ingresso dell'Italia nella Grande Guerra. Quasi non ce ne accorgiamo ma le nostre città sono un groviglio di storia e geografia in cui l'una identifica l'altra. La prassi impone infatti di intitolare strade e piazze ad eventi che in qualche modo hanno segnato la vita delle persone del luogo o dell'intero paese. Solitamente queste date ci parlano di oppressione, di sofferenza, di riscatto, e di conseguenza di gloria. Sono perlopiù vittorie militari o comunque dimostrazioni della caparbietà di nostri compatrioti, preferibilmente contro eserciti stranieri. Perché è proprio dal confronto con l'altro, dalla minaccia esterna, dal nemico comune che nasce l'identità di popolo.
Gli italiani, si sa, sono popolo a cadenza biennale secondo un processo graduale che normalmente subisce una brusca accelerazione in concomitanza dei quarti di finale del torneo calcistico di turno. Da una settantina d'anni, in mancanza di circostanze particolarmente provanti in grado di stimolare un sentire comune, il calcio ha sostituito la guerra quale principale mezzo di costruzione dell'identità nazionale e, se permettete, starei attento a sputare sopra a quello che, nonostante passi per una brutta abitudine "italiota", a me sembra piuttosto un privilegio. Precisato che io sceglierei tutta la vita una semifinale europea a Varsavia a un'altra guerra con i tedeschi, è arrivato il momento di ricordare uno di questi eventi che, pur nella sua frivolezza, è stato capace di muovere le nostre pigre coscienze.
Alle ore 18:00 del 29 giugno 2000 scendono in campo le nazionali di Italia e Olanda. L'Amsterdam Arena è una bolgia colorata di arancione che non aspetta altro che l'ennesimo sacrificio prima della finale. Il cammino dei padroni di casa è stato fino a lì impeccabile: girone a punteggio pieno e Jugoslavia spazzata via 6-1 ai quarti. Tutto va secondo i piani e presto, ne sono sicuri lassù, Bergkamp, Kluivert e i gemelli De Boer bisseranno il successo di Van Basten e Gullit di dodici anni prima, e per di più in casa! Reduce anche lui dell'impresa del 1988, Rijkaard è il giovane timoniere di una squadra chiamata a sbaragliare la concorrenza con il bel gioco. Gli olandesi sono in missione per conto di Cruijff.
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Il "muro arancione" fa paura quel 29 giugno ad Amsterdam. |
Sulla loro strada l'Italia di Dino Zoff, l'antitesi di tutto ciò che può avere un minimo di appeal, di ciò che è spettacolare e offensivo. Per di più a quell'Europeo ci arriviamo senza capo né coda. Letteralmente. Durante il ritiro un infortunio alla coscia mette K.O. Bobo Vieri, nostro principale terminale offensivo, mentre il giovane Gigi Buffon si frattura la mano nel corso di una sciagurata amichevole con la Norvegia. A difendere la porta è chiamato quindi Francesco Toldo, da anni sulla rampa di lancio ma sempre dietro nelle scelte dei tecnici. A sopperire al peso di Vieri invece ci pensano i vari Pippo Inzaghi, Montella, Delvecchio, oltre a Totti e Del Piero. Visti con gli occhi di oggi: tanta roba, verrebbe da dire.
Le premesse non sono delle migliori ma, come la storia della Nazionale insegna, è nella sfiducia generale che arrivano le soddisfazioni. Ancora ricordo il mio stupore nei primi minuti di Italia-Turchia, incredulo nel vedere gli azzurri riversarsi con impeto nella metà campo avversaria. La prima di una serie di emozioni a cui il mio giovane cuore non era abituato. Poi venne il goal di Conte, il pareggio di Okan Buruk, il rigore di Inzaghi e intanto il dualismo Del Piero-Totti che iniziava a strisciare. Da lì però partì una bella marcia, bella soprattutto perché inaspettata, contro lo scetticismo generale e contro le critiche esterne. Fiore eroe dell'Heysel contro il Belgio, l'acuto di Del Piero con la Svezia, la Romania ai quarti con Hagi in veste di macellaio su Conte. A voler essere pignoli si sarebbe potuto obiettare che gli avversari non fossero proprio irresistibili, ma non ce ne fregava niente. Non me ne fregava niente. Per me era già una vittoria. Sarà stata la mia natura pessimistica, ma non pensavo che avrei rivisto presto l'Italia in una semifinale. Mi ero rassegnato a convivere con i vaghi ricordi di quel mondiale americano così lontano nella memoria e così vicino al cuore.
Intanto gli italiani, piano piano, cominciavano a stringersi attorno a questa squadra, magari divisi tra l'attesa per Godot e la fretta di vedere esplodere il Pupone, ma orgogliosi di una fortezza difensiva senza eguali e della ruvida flemma di mister Zoff: i nostri scudi contro i pronostici già scritti e la supponenza olandese. Scudi che sembrano valere molto poco a giudicare dai primi minuti di quella che sembra una partita come tante. Importante, certo, si gioca una semifinale europea, ma chi si sarebbe aspettato che quindici anni dopo saremmo stati ancora qui a parlarne, a rimembrare le gloriose gesta di eroi a cui un caldo pomeriggio di giugno regalò l'immortalità.
Ad aprire le danze il palo di Bergkamp, avvisaglia delle due ore di passione che seguiranno. Il mio primo ricordo però è la reazione di Zambrotta dopo l'entrataccia su un imprendibile Zenden. L'arbitro Merk è inflessibile: secondo giallo, esplusione. No! No! Ma cosa... no dai... si legge sulle labbra del giovane azzurro. Una protesta appena accennata che mette quasi tenerezza, frutto più dello sconforto che della rabbia. Gli occhi di Zambrotta sono quelli di chi sa di averla fatta grossa, quelli di Cannvaro, accorso per dar manforte al compagno, sono gli occhi di chi ha capito che sarà un lungo pomeriggio, i miei occhi, davanti al teleschermo, sono invece quelli di chi sente che una bella occasione è andata persa.
Una manciata di minuti dopo l'arbitro fischia ancora. È un fischio che assomiglia molto a un De Profundis perché sancisce un generoso rigore ai danni di un'Italia in grande difficoltà, in dieci e con ancora tutto il secondo tempo davanti. C'è da sperare che non finisca in goleada avrà pensato qualcuno. Preparati al peggio ci affidiamo alle mani di Toldo. Bravo quello spilungone, da tenere d'occhio per il futuro. È quello che si dice da almeno cinque anni di un portiere su cui nessuno però ha mai scommesso davvero. Chiuso da Pagliuca e Peruzzi prima, ora c'è il predestinato Buffon a sbarrargli la strada. Arrivato a trent'anni non doveva neanche scendere in campo in quell'Europeo, la semifinale l'avrebbe vista tutt'al più dalla panchina. Invece il caso vuole che quel 29 giugno ci sia lui a oscurare la porta a capitan Frank De Boer mentre si appresta a calciare dal dischetto. Scorre lento il tempo per il nostro portierone che vede gli altri muoversi al rallentatore. Ancor prima che De Boer tocchi il pallone Toldo si è già lanciato alla sua sinistra, pronto a respingere il tiro e la malasorte.
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Toldo spicca il volo. |
Allucinati dall'adrenalina entrata in circolo dopo essere scampati alla morte non una, ma ben due volte, prende forma in noi una strana sensazione di onnipotenza, di invincibilità. Ancora! Dagli un rigore! Dagliene un altro! gridavano dalla radio i ragazzi della Gialappa's che facevano da sottofondo alle immagini silenziate del mio televisore (scusa Bruno!). La strana miscela di incredulità per essere ancora vivi e di goduria data dalla frustrazione degli olandesi produce una sorta di trance mistica in cui iniziano a balenare pensieri proibiti. Il primo sintomo del nostro alterato stato di coscienza è la galoppata di Marco Delvecchio che indovina un contropiede e, tallonato da due difensori, arriva a minacciare il forte difeso da Van Der Sar che si rifugia in calcio d'angolo. Ancora qualche schermaglia. Fischio finale. La tregua.
120 minuti di gioco hanno prodotto uno 0-0. Un risultato che non sembra dire niente della miriade di cose successe in campo. Non dice niente delle innumerevoli occasioni olandesi, del dominio sfacciato degli uomini di Rijkaard, dell'eroica prova di Cannavaro, dei crampi di Maldini e di Del Piero che, stremato, si riduce a fare il terzino, totalmente votato a una causa più grande di lui. Il risultato non sembra dire niente neanche dell'altalena di emozioni vissute da entrambe le parti, da chi era in campo ma soprattutto da chi era allo stadio, a casa, al bar o in piazza davanti al maxischermo. Non sarà invece che quello 0-0 ci dice tutto? Dietro quel pareggio infatti c'è l'essenza di un'"italianità", presunta o reale, fatta di resistenza, tenacia, capacità di cavarsela in qualsiasi situazione e di tutte quelle cose che retoricamente amiamo dire di noi stessi: è nei momenti di difficoltà che l'Italia dà il meglio di sé. Si dice così, no?
Dunque i rigori. Sulla porzione di campo che si affaccia sul tanto decantato "muro arancione" si intrecciano un'infinità di storie, sensazioni, speranze ma soprattutto paure. Nessuno avrebbe voluto un epilogo simile. Le ferite degli olandesi sono ancora fresche, ai rigori infatti si sono consumate due grandi delusioni: l'eliminazione agli Europei di quattro anni prima e soprattutto la semifinale mondiale contro il Brasile in Francia. L'Italia... beh, più che ferite i rigori hanno inferto profonde cicatrici nell'immaginario degli italiani. Qualcosa di più della sfortuna, una maledizione sembra pendere sul capo dei nostri rigoristi da almeno una decina d'anni. Ad Amsterdam quel giorno sono tanti gli azzurri che serbano il ricordo della beffa dagli undici metri. La paura che tutto possa tragicamente ripetersi cova dentro di loro. In quel momento lo sguardo di tutti si ferma su un giocatore in particolare: Gigi Di Biagio. Fu suo l'errore che due anni prima ci costò la terza eliminazione mondiale consecutiva ai rigori. La situazione è simile a quella di due anni prima in Francia. Molto simile. Troppo. Nessuno può aver fatto a meno di correre con il pensiero a quel triste pomeriggio parigino vedendo Gigi incamminarsi, pallone alla mano, incontro al suo destino. Liberarsi dal peso che lo attanaglia da due anni o riaprire la ferita non ancora rimarginata? Certo è il primo rigore ma Gigi gioca d'azzardo, punta tutto su un potente tiro all'incrocio dei pali, e sbanca. La rabbiosa esultanza e il sorriso disteso rassicurano la truppa: qualcosa è cambiato. Quello che segue non è il semplice epilogo di una partita di calcio ma è la catarsi di una nazione intera, sublimata dal sacrificio purificatore di un uomo: Francesco Toldo. Va in scena la redenzione di un popolo di fronte a cui ogni logica deve arrendersi. Più di tutte queste parole vale lo sguardo di Rijkaard dopo il secondo rigore fallito da Stam. Attonito, stordito dalla serie impressionante di errori, accenna un amaro ghigno al suo vice Ruud Krol, atto di resa di fronte a una forza che sa ormai inarrestabile.
Sul 2-0 tocca a Francesco Totti mettere al sicuro l'insperato quanto inspiegabile vantaggio. Totti ha 24 anni, da almeno un biennio è considerato il faro della Nazionale del futuro e nell'estate del 2000 gioca quello che probabilmente sarà il suo miglior torneo internazionale in carriera. Ancora libero dalle pressioni che il ruolo di uomo-simbolo gli imporrà negli anni a seguire, segna e ci fa sognare. A testimonianza di quello stato di grazia, nei tempi supplementari trova un goal fantascientifico da centrocampo indovinando un rimbalzo che finisce proprio sotto la traversa di Van Der Sar. Il tutto a gioco a fermo. Quel qualcosa nell'aria che da due ore tiene ancora in piedi gli azzurri si materializza nell'inedita parabola che assume il pallone che Totti lascia partire in occasione del terzo rigore. Una traiettoria mai vista, che lentamente trafigge lo spazio e sovverte la monotona rettilinearità del calcio. In realtà Totti non inventa niente. Molto prima di lui il cecoslovacco Antonin Panenka stupì il mondo con quel tocco capace di lasciare di stucco l'imbattibile Sepp Maier. Sono anni però che a grandi livelli non se ne vede uno di quei tiri lì, i "Panenka", come venivano chiamati e ancora sono chiamati al di fuori della penisola. Invece qui Raiuno non fa in tempo ad andare in pubblicità che quello strano tiro accende la nostra fantasia, ci ricorda qualcosa di familiare e diventa ciò che non potremo più dimenticare: il "Cucchiaio". Il "Cucchiaio" è il culmine di quel 29 giugno in cui, per qualche ora, oltre all'Italia si fecero anche gli italiani. Una sintesi di quell'Italia picaresca che ci piace celebrare e che ci vale lo sguardo severo del resto del mondo, un'Italia che, sopravvissuta non si sa come al disastro, si permette l'ingrato lusso dello sberleffo all'avversario.
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Anche Rijkaard capisce che non è un giorno come gli altri. |
Ancora qualche tiro. Kluivert azzecca l'unico rigore della giornata ma nessuno ci fa caso. Nemmeno l'errore di Maldini fa vacillare la nostra fiducia nel fatto che la tempesta sia passata. L'ultimo rigore, calciato da Bosvelt, ci sembra una formalità, quasi fosse la cosa più naturale del mondo che quel giorno Toldo lo pari. Dalla metà campo parte un'onda azzurra che travolge l'eroe di giornata e con lei anche noi abbracciamo parenti, amici, sconosciuti, legati tutti da una sofferenza comune. A quindici anni di distanza quello che rimane non è una coppa, sappiamo tutti come andò pochi giorni dopo a Rotterdam, ma un ricordo che è entrato di diritto nel nostro patrimonio, scusate il termine, culturale. Nel suo piccolo il 29 giugno 2000 occupa un posticino nella memoria collettiva di un popolo che non ha vissuto né un Risorgimento né una Liberazione. Suona provocatorio ma quanti di noi, parlo in particolare di quelli nati negli anni Ottanta, si sono sentiti più italiani che in quel giorno? Sì ok, il cielo sopra Berlino, Fabio Grosso, po poppoppo poppopooooo. Ma il punto è che sempre di calcio si parla. Complici i moderni mezzi di comunicazione di massa e l'interesse che il calcio è capace di calamitare in questo paese, eravamo decine di milioni a trattenere il fiato insieme a Toldo o negli infiniti secondi trascorsi tra il tocco di Totti e l'ingresso della palla in rete. E oggi siamo decine di milioni a ricordare e a tramandare la leggenda del "Cucchiaio", espressione che innegabilmente è diventata parte del nostro linguaggio comune e che reca la memoria di un vissuto condiviso.
Stremato ma felice, come fossi stato anch'io in campo quel pomeriggio, a tarda sera guardavo scorrere i giudizi che la fauna televisiva sbrodolava sulla prestazione degli azzurri. Ero curioso di vedere come metri di giudizio che solitamente producono risultati che oscillano tra il 5 e il 7 potessero valutare una prestazione incommensurabile. I numeri infatti non bastavano a descrivere quello che era successo. Ancora ricordo una pagella fatta da un giornalista di Studio Sport, allora si chiamava così. Toldo: 10, immenso. Ricordo anche l'ospite di quella sera: Arrigo Sacchi. Divertito, pregustavo il giudizio che un profeta del bel calcio come lui potesse dare su una partita del genere. Alla domanda di rito del giornalista Arrigo rispose con un sorriso sornione, al che le sue parole furono: Beh... se gli italiani sono contenti, sono contento anch'io. Ben detto Arrigo, quella sera eravamo tutti contenti.
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